L’occidente
orientale della triade coreana
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Registi,
film e coordinate di vicinanza all’ultimo KFF 06 |
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Il
IV° Korea Film Fest è passato. Ha portato
con se ancora una volta odori d’oriente soavi
ma decisi, lasciando un segno ancora più
profondo nel rapporto con il cinema e la cultura
della Corea del Sud e fornendo nuovi elementi per
rinnovare la stima nei confronti di lavori cinematografici
spesso sconosciuti.
Come recita il comunicato “oltre alla consolidata
partnership con Samsung Electronics Italia”
il festival si è avvalso (come l’anno
precedente) anche della collaborazione di Korean
Air, del Consiglio Regionale della Toscana, degli
Assessorati alle Relazioni Internazionali e alla
Cultura del Comune di Firenze, all’Assessorato
alla Cultura della Provincia di Firenze, alla KOFIC-Korean
Film Council, all’Ambasciata d’Italia
a Seoul e del Centro di cultura italiano di Seoul.
Quest’anno si è
cercato di ampliare il raggio d’azione, passando
dai sette giorni di festival dell’anno precedente
a ben dieci di quest’ultima edizione, utilizzando
tre spazi filmici e non più uno solamente
(Auditorium Stensen, Cinema Alfieri Atelier e Cinema
Castello). L’anno scorso la manifestazione
poteva contare sulla filmografia completa di Kim
Ki-Duk, astro nascente (potremmo dire oramai quasi
consacrato) del cinema coreano e quindi scommettere
sull’affluenza di pubblico derivata dal suo
lento ma prestigioso successo occidentale e ruotando
il resto delle scelte su lavori sperimentali (corti
e cartoni animati) più rischiosi.
L’edizione 2006 ha fatto
un passo avanti, con una programmazione più
eterogenea e accattivante, ha stilato un cartellone
di film multistrato,
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corti d’autore,
generi tra i più svariati e presenza di
registi per incontri col pubblico.
Tre sono state le figure focali della rassegna
suille quali il resto è gravitato con spessore
e coerenza: la vasta retrospettiva su Park Chan
Wook e le due filmografie di Song Il Gon e Kim
Jee Woon (con presenza in carne ed ossa di entrambi),
autori di spessore in patria ma che stanno pian
piano conquistando consensi anche in occidente
(per le schede complete di registi e film vi rimando
al sito ufficiale e al comunicato stampa).
Delle tre figure cinematografiche di spicco sopra
citate possiamo ricordare di seguito i lavori
più interessanti visti al festival passandoli
velocemente in rassegna.
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Park
Chan Wook
Oltre alla sua recente e già nota “trilogia
della vendetta”, è stato possibile
ammirare il suo meraviglioso JSA
– Joint Security Area, un thriller
paramilitare sul rapporto ambiguo tra Corea del
Sud e Corea del Nord, al confine di sentimenti
umani; Trio, una
commedia agrodolce e due cortometraggi: The
Judgement, macabro e ironico spaccato sul
crollo di un grande magazzino a Seoul nel 1995
in cui morirono 500 persone e Three
extremes, raccolta di tre corti horror
(coproduzione Cina, Giappone e S.Corea), tra i
quali quello del regista di Lady
Vendetta, Taglio, è decisamente
cinico e assurdo, visionario e quasi “malato”,
nel pieno stile Park Chan Wook.
Song Il Gon
Autore multiforme di grandi capacità, spiccano
i suoi due recenti film Flower
Island (2001), viaggio di tre donne accomunate
dalla perdita di ogni speranza ritroveranno un
senso della vita assieme e il contorto ma sublime
Spider Forest, dal
retrogusto Lynch e Cronenberg, dove il protagonista
se piomberà in una realtà fatta
di omicidi e scomparse, visioni e flashback, il
passato che torna e leggende popolari. Un thriller
ben realizzato e pieno di sorprese.
Kim
Jee Woon
Autore non più giovanissimo ma di estrema
originalità e talento. Il suo ultimo A
Bittersweet Life (in anteprima al KFF)
è un capolavoro di sintesi tra violenza,
amore e contesto sociale. Un mix quasi tarantiniano
tra i ricordi dello scorsese di Goodfellas
e gli western di Sergio Leone. Ma poeticamente
devastante negli attimi in cui la furia si placa.
Consigliatissimo. E’ inoltre il creatore
di A Tale of Two Sisters,
dal quale poi si è arrivati ai botteghini
e nelle nostre sale con Two
sisters, horror acuto e intenso. The
Quite Family (2001) e The
Foul King (2002) completano la figura di
questo regista validissimo che passa dal comico
al noir, dal grottesco all’horror per finire
al dramma sentimentale con una facilità
spaventosa.
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Kim
Jee Woon al termine dell’anteprima di A
Bittersweet Life ha incontrato il pubblico
in sala (nelle foto) rispondendo ai quesiti degli
spettatori. Spiega che la sua forma di efferatezza
ai massimi termini è portata all’eccesso
per esorcizzare un mondo, una società che
la propone, un’evoluzione metropolitana
cinica dei sentimenti che lui prende ad esempio,
ironizzandoci spesso sopra (a volte come in un
fumetto) per non prendersi troppo sul serio e
dare una distanza tra vero e fittizio. Attirato
dai personaggi “soli”, cerca in loro
un motivo, un escamotage al moto perpetuo (ascoltare
e/o vedere spaccato d’intervista multimediale
a link di riferimento n.d.r.). Kim Jee Woon, come
i suoi colleghi Park Chan Wook e Song Il Gon hanno
senza dubbio retroterra occidentali, film di massa
suburbana e rimandi post moderni, nella forma
e nel contenuto, spazzando via l’idea che
il cinema proveniente da oriente sia lento, macchinoso
e tradizionalista. Niente di tutto ciò.
C’è solo forse un’attenzione
diversa alle anime raccontate e una poesia meno
esplicita dell’uso consueto. E’ assolutamente
legittimo mantenere rispettivi stili e dosaggi,
contestualizzando antropologicamente uomo e personaggi
nell’ambiente di provenienza, tuttavia oriente
e occidente si chiamano, rispondendosi. Parlando
poi con Riccardo Gelli, direttore artistico del
KFF, “nel dietro le quinte”, siamo
riusciti a sapere che probabilmente il prossimo
anno la Corea portata in Italia sottoforma di
film sarà quella del Nord e non del Sud
come nelle ultime 4 edizioni. I diplomatici Coreani
si sono raccomandati di non inserire film del
Nord e del Sud assieme (!) per non creare tensioni
politiche e sociali. Questo è il chiaro
sintomo di come ancora forte sia la divisione
tra le due Coree, tra il regime comunista del
Nord e il liberismo progressista del Sud e che
molti registi mettano in primo piano nei loro
lungometraggi a testimoniare una situazione d’instabilità
e conflitto anche artistico. Peccato. Il cinema,
come l’arte in genere potrebbe spesso unire
o almeno avvicinare ciò che da lustri è
diviso, aprendo varchi di luce e dimostrando che
si può convivere assieme. Dall’alto
però ci guidano spesso dei politici piccoli,
ambiziosi e disinteressati al bene comune. Pronti
a mantenere la sedia dove poggiano muovendosi
a favore di vento. L’Italia e la Corea,
guerra civile a parte, si somigliano ancora una
volta. [alessandro
antonelli] |
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