Nato nel 1960, allievo della
Scuola Normale Superiore, laureato in filosofia, Eric-Emmanuel
Schmitt si è fatto conoscere inizialmente a teatro
con Le Visiteur, ipotetico incontro tra Freud e forse
Dio, diventato un classico del repertorio internazionale.
Il primo successo è stato rapidamente seguito
da tanti altri come: Variations énigmatiques,
Le Libertin, Hôtel des deux mondes, Petits crimes
conjugaux, Mes Evangiles… Osannato da critica
e pubblico, i suoi spettacoli hanno vinto diversi premi
“Molière” oltre al “Grand Prix
du théâtre della Académie française”
e le sue opere vengono messe in scena ormai in più
di 40 paesi. Recentemente, i quattro racconti del suo
Cycle de l'Invisible, che parlano di infanzia e spiritualità,
hanno riscosso un immenso successo sia a teatro sia
in libreria: Milarepa, Oscar et la dame rose, L'Enfant
de Noé et Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano,
dal quale François Dupeyron ha tratto un film
interpretato da Omar Sharif premiato con il “César”
come Migliore Attore nel 2004.
La carriera di romanziere, iniziata con La Secte des
égoïstes, assorbe ormai gran parte delle
sue energie da quando ha scritto L'Evangile selon Pilate,
libro voluminoso del quale La Part de l'autre è
il lato più oscuro. Da allora, ha scritto Lorsque
j'étais une œuvre d'art, variazione fantastica
e contemporanea sul mito di Faust e una auto-fiction
Ma Vie avec Mozart, una corrispondenza intima ed originale
con il compositore di Vienna.
Nel 2004, ha vinto il “Gran Premio del Pubblico”
a Leipzig, il “Deutscher Bücherpreis”
per Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano e a Berlino,
il prestigioso premio “Die Quadriga” per
"l’umanità e la saggezza delle quali
il suo umorismo riesce a nutrire gli uomini". Nell’autunno
del 2004, la rivista Lire ha condotto un sondaggio tra
i Francesi per scegliere “i libri che gli hanno
cambiato la vita”: Oscar et la dame rose –
fatto eccezionale per un autore vivente – si trova
accanto a opere come La Bibbia, I tre moschettieri,
o il Piccolo Principe.
Finora non aveva mai acconsentito a dirigere
i suoi spettacoli teatrali, e poi ecco che si lancia
in questa avventura cinematografica dirigendo Odette
Toulemonde. Si tratta forse della realizzazione di un
sogno?
Quando avevo 10 anni, a chiunque mi chiedesse cosa avrei
voluto fare da grande rispondevo: « Walt Disney
» ! Per me, era come dire fare il regista perché,
a quell’epoca, non avevo ancora perfezionato la
mia analisi sul cinema e inoltre, gli unici film che
vedevo erano i cartoni animati. Successivamente, e non
so dirle per quale ragione, non ho dato libero sfogo
a questo mio desiderio. E’ un qualcosa che ho
sempre messo da parte, forse perché pensavo che
fosse al di là delle mie possibilità.
Quali sono i film ed i
registi che l’hanno influenzata maggiormente?
Il giorno che ho capito che il cinema era arte avevo
15 anni ed ero appena uscito da una sala dove proiettavano
Orfeo di Jean Cocteau. E’ un film che mi ha letteralmente
conquistato e che continuo a rivedere con grande passione.
Ho adorato quella storia che era al contempo metafisica
e poetica, ma nutrivo anche una grandissima ammirazione
per gli effetti speciali usati. Da quel giorno, tra
me e il cinema è scoppiata una vera passione
che mi porta ad amare ugualmente autori quali Cocteau
e i grandi del cinema comico. Ho adorato Ophuls, Lubitsch...
Vogliamo vivere è un film che conosco letteralmente
a memoria! Per quanto riguarda i cineasti contemporanei,
ammiro moltissimo Jaco Van Dormael. Toto le héros-Un
eroe di fine millennio e L’ottavo giorno sono
degli autentici capolavori. Devo confessare che è
proprio in nome dell’amore che nutro per alcuni
registi che mi sono sempre imposto di non mettermi dietro
la macchina da presa. Non mi sono mai considerato uno
di loro.
E
allora cos’è che l’ha spinta a cambiare
idea e a dirigere il suo primo film?
E’ tutto merito di Yann Moix. Stava cominciando
a girare Podium e ad essere sincero non provavo né
invidia, né gelosia; anzi, al contrario, ero
contento che realizzasse il film. Un giorno mi ha chiesto:
«Ma perché non ne fai uno pure tu?»
Ed io gli ho risposto: «Perché non ne sono
capace! » E a quel punto lui ha pronunciato questa
frase: «Se c’è un persona che conosce
alla perfezione l’universo di Eric-Emmanuel Schmitt,
questo è Eric-Emmanuel Schmitt !» Potrebbe
sembrare una fase ovvia e sciocca, ma mi ha fatto scattare
qualche cosa. E allora mi sono detto: «Ha proprio
ragione; se c’è qualcuno che conosce il
mio universo, quello sono proprio io» A volte
ho provato una sorta di insoddisfazione guardando i
testi che avevo scritto prendere vita sul palcoscenico
o sul grande schermo perché non mi sembravano
“completamente” giusti, appropriati. Una
volta sul set, la mia vera ossessione è stata
trovare l’elemento “giusto, esatto”
in qualunque cosa: nei movimenti della macchina da presa,
nelle inflessioni dei dialoghi, nei silenzi…
Aveva
già in mente la storia di Odette Toulemonde prima
di pensare concretamente alla sua realizzazione?
Diciamo che questa storia parte da uno spunto autobiografico.
Ricordo che durante una tournée in Germania sulla
costa del Mar Baltico, partecipai ad una conferenza
stampa con il teatro pieno zeppo e con tanta gente che
chiedeva autografi ma, malgrado tutto ero molto triste.
Era il giorno del mio compleanno, nessuno in quella
città lo sapeva ed ero molto lontano da casa
mia. A quel punto, una lettrice mi consegnò una
lettera. Si era agghindata per l’occasione e forse
aveva esagerato.Toccando la busta, mi è sembrato
di riconoscere un oggetto a forma di cuore: ho aperto
ed era proprio così! Anche se l’ho ringraziata,
non sono stato troppo gentile con lei perché
quel cuore era molto kitsch e questo voleva dire che
quella signora non aveva i miei stessi gusti e di conseguenza
non riuscivo a capacitarmi di come una persona così
diversa da me potesse apprezzare i miei libri. Se devo
essere completamente sincero, mi sono quasi vergognato
di avere un’ammiratrice come lei.
E’ un po’
lo stesso problema che ha Balthazar Balsan quando afferma
di scrivere per cassiere e parrucchiere…
Esattamente! Ma forse l’unica “colpa”
di quella lettrice è stata aver usato un linguaggio
troppo kitsch – a mio avviso – per esprimere
il suo affetto nei miei confronti ed io, invece di capire
la generosità e l’umanità che c’erano
dietro quel gesto e quella donna ho colto solo il lato
kitsch e sul momento ho risposto parlando in un francese
molto corretto, con un tono piuttosto critico mostrando
una sorta di superiorità sarcastica per i gusti
degli altri. Un’ora dopo, solo nella mia camera
d’albergo, triste, malinconico, ho aperto la lettera
e l’ho trovata molto bella; a quel punto quel
cuore che avevo trovato così ridicolo, mi è
sembrato bellissimo. Me lo sono appoggiato sul petto
e l'ho tenuto così quasi tutta la notte.
E
anche lei è andato a trovarla a casa?
No, nella vita vera la cosa si è conclusa lì!
Ma quel giorno ho capito che quello che conta è
l’autenticità dei sentimenti e quando sono
tornato a casa mi sono detto che quello poteva essere
l’inizio per una nuova storia. E quindi, invece
di viverla, l’ho scritta.
Da dove viene il nome
Odette Toulemonde ?
E’ frutto di un’ispirazione! Quando ho buttato
lì tra il serio e il faceto a Gaspard de Chavagnac,
il produttore, e a Bruno Metzger, il direttore artistico,
che il personaggio si sarebbe potuto chiamare Odette
Toulemonde, hanno riso così tanto che mi sono
detto che andava benissimo. Alla fine è diventato
addirittura il titolo del film. Toulemonde è
un nome piuttosto comune nel nord della Francia e in
Belgio.
Come
definirebbe Odette ?
E’ una donna che si porta dentro una sorta di
orchestra jazz, nel senso che è piena di gioia.
E questa gioia le permette di attraversare la vita,
di dimenticare le cose che possono essere troppo dolorose
– o di credere di poterle dimenticare. Dalla morte
del marito, ha soppresso la propria fisicità
e nel film Odette darà la sua anima a Balthazar
mentre Balthazar le darà il suo corpo. E’
questo lo scambio che è al centro del film ed
è per questo che alla fine del film diventeranno
una coppia.
Si ritrovano sia nell’amore
sia nella fantasia. E lei ha una visione un po’
particolare dei propri figli…
Giusto. Infatti, Odette trova che sia più grave
avere una figlia che è sempre di cattivo umore
piuttosto che avere un figlio omosessuale. Sa chiaramente
quali sono i valori che contano nella vita: se suo figlio
è felice, anche lei è felice di conseguenza
e se sente che la figlia non lo è, si preoccupa
e tenta di intervenire, con dolcezza e delicatezza sul
suo destino.
Bisogna ammettere, che
la vita di Odette non è certamente delle più
divertenti…
Ma lei vede solo il lato positivo della vita, perché
ha il dono della meraviglia, dello stupore. Inoltre,
presta molta attenzione agli altri e questo emerge già
dalla prima scena con la cliente un po’ abbattuta
che torna poi a metà film. Tuttavia, conduce
una vita piuttosto difficile perché ha dei problemi
economici. Per questo fa due lavori: di giorno fa la
commessa nel reparto cosmetici di un grande magazzino
e la sera cuce le penne sui costumi di scena per le
ballerine delle riviste.
Ma
perché ha scelto proprio questa attività?
Perché questo film è la storia dell’incontro
tra un uomo e una donna di penna! Ma per rispondere
alla sua domanda, devo confessarle che l’attività
di Odette nel film è un mestiere che mi affascina
molto, come tanti altri lavori artigianali del resto.
E’ diventato un lavoro piuttosto raro, e a Parigi
ormai ci sono solo due persone che cuciono piume e penne
sui costumi delle soubrette. Per Odette, il fatto stesso
di cucire penne e piume e di fabbricare dei costumi
vistosi è una maniera come un’altra per
evadere. Dentro di sé, si cela un’immensa
gioia di vivere che è simboleggiata da Joséphine
Baker della quale conosce a memoria tutte le canzoni
e che è una sorta di sua voce interiore. Ma ciò
che la rende veramente felice è una cosa sola:
il suo autore preferito, Balthazar Balsan.
Io penso che, il segreto della felicità di Odette
sia un qualcosa di innato ma lei è convinta che
sia merito di quell’uomo perché i suoi
romanzi le fanno proprio bene. Durante i giorni di lutto
seguiti alla perdita del marito, si è sicuramente
affidata a quei romanzi per non perdere la speranza
e restare attaccata alla vita. Di conseguenza, ritiene
di essere in debito con lui, e che lui ha il diritto
di saperlo. Alla fine, riuscirà a pagare il debito
in una maniera che va ben al di là dalle sue
attese.
Ha avuto rapporti simili
con alcuni dei suoi lettori?
Sì, mi sono capitate tante storie simili e devo
confessarle che mi sconvolgono sempre. Fare del bene,
è forse l’obiettivo ultimo dell’arte
della scrittura ma è così grande ed ambizioso
che io non oso neanche sperare di raggiungerlo. Ma spesso
i lettori ti esprimono la loro gratitudine con delle
lettere magnifiche, commoventi e delle altre in maniera
piuttosto buffa e divertente come è il caso di
una signora di Bruxelles che recentemente è entrata
in una libreria dove io firmavo le copie del mio libro
e ha usato l’espressione: «Quando sono giù
di morale mi faccio di Schmitt ! E lo consiglio anche
a tutte le mie amiche!» Per quanto riguarda alcuni
libri in particolare, come per esempio Oscar et la dame
rose che racconta la storia di un bambino malato ma
lo fa in maniera gioiosa e coraggiosa, i lettori non
mi dicono bravo ma mi ringraziano. E questa è
la migliore delle ricompense per uno scrittore perché
vuol dire essere riusciti a penetrare in una zona nella
quale forse si è utili a qualche cosa, e aver
superato il momento del puro e semplice narcisismo.
A
questo punto parliamo di scrittori, di uno a caso soprattutto:
Balthazar Balsan.
Lui è ancora troppo narciso!
E’ un autore di
successo che non riesce a mandare giù il fatto
di essere un autore popolare …
Si è portati a credere che un autore popolare
decida di esserlo, ma in realtà lo scrittore
è semplicemente l’autore del suo libro
e non del suo successo. E’ il pubblico che è
l’artefice del suo successo. Tutto è falsato
se si attribuisce ad un autore l’espressa volontà
di essere uno scrittore di successo. A metà della
sua esistenza, nonostante l’apprezzamento dei
suoi lettori, Balthazar Balsan non ha più alcuna
fiducia in sé. Non sa più quali siano
i suoi riferimenti e anche se i suoi libri non contengono
mai luoghi comuni, la sua vita ne è piena zeppa.
Basta citare il luogo comune della felicità che
ha adottato come modello di vita senza mai chiedersi
se fosse veramente felice.
Che
cosa intende per luogo comune, cliché della felicità?
Essere ricco, avere successo, possedere un enorme appartamento
a Parigi, un’automobile molto chic, avere una
moglie bella ed affascinante che si può mostrare
in qualunque occasione… Balsan ha collezionato
tutti i simboli del successo ma in fondo in fondo, ha
fallito perché nulla di ciò che possiede
ha niente a che vedere con la sua identità più
profonda. E quando scopriamo che è di umili origini
e che è cresciuto in un orfanotrofio, capiamo
che ha concepito la vita come una sorta di rivincita
sociale ispirandosi a modelli preconfezionati di felicità
e di successo per trovare una collocazione nella società
perché non ha mai conosciuto i suoi genitori
e non ha mai avuto una famiglia vera. Ciononostante,
Odette lo aiuterà a ritrovare il suo vero io
e le cose che contano veramente, e a cercare ciò
che possa renderlo veramente felice. Il paradosso è
che colei che lo rende felice non è necessariamente
la donna più bella o la più sexy. Certo,
è vero che Odette è una persona raggiante,
graziosa e che si muove benissimo ma ci sono tante altre
donne più belle, più giovani, più
appariscenti di lei. Ma alla fine sarà lei ad
avere la meglio; per capirlo, doveva prima toccare il
fondo. Quindi, possiamo concludere che questo film racconta
la storia di una donna che ripesca un uomo dall’abisso
nel quale era sprofondato.
C’è una scena
nella quale Balthazar dice: «Ho passato più
tempo a firmare le copie dei miei libri che a scriverli».
E’ forse uno dei messaggi del film?
Direi piuttosto che è una confessione! Ho fatto
delle tournée in diversi paesi dove ho trascorso
ore ed ore a firmare copie per i miei lettori, con la
gente che faceva la fila anche per un’ora, un’ora
e mezza. … E spesso quando arrivavano davanti
a me erano sfiniti e io potevo dedicargli solo pochi
second, credo che sia un’esperienza frustrante
per tutti!
Da
quello che mi sembra di capire non sono poi così
tanti i punti in comune tra Balthazar Balzan e Eric-Emmanuel
Schmitt?
Io mi sento sia Odette sia Balthazar. Penso che la felicità
che ho provato realizzando questo film sia dovuta al
fatto di aver dato libero sfogo alla gioia di vivere
che c’è in me, e che avevo espresso in
passato in forma metafisica o filosofica ma mai usando
i suoni e le immagini in movimento. Grazie all’incontro
con Catherine Frot, che è stata capace di interpretare
alla perfezione questo personaggio, e grazie alla magia
del cinema, ho avuto l’impressione di essere stato
molto più me stesso con questo film che con tanti
miei libri. Questo film mi somiglia molto di più
di tante altre cose fatte in passato perché c’è
questa sorta di felicità nell’essere vivi
che non ero mai riuscito ad esprimere allo stesso modo.
Anche io ho delle ingenuità e dei candori, proprio
come quelli di Odette e ho anche dei momenti di depressione
o di ambizione come quelli che vive Balthazar.
L’incontro
tra Odette e Balthazar avviene in più tappe…
Diciamo che la cosa fondamentale e quella a mio avviso
più divertente è il semplice fatto di
far incontrare dei personaggi senza che si incontrino!
Infatti, si vedono diverse volte senza che lui se ne
renda conto proprio perché lei non è il
tipo di donna alla quale lui presta generalmente attenzione,
abituato com’è a sentire una forte attrazione
sessuale per le donne. Ma Odette non gli fa questo effetto
e quindi ci mette parecchio tempo per rendersi conto
che è graziosa e che ha voglia di baciarla. Lei
lo ama di un amore puro e incondizionato, ma non si
tratta neanche per lei di un amore sensuale. Lei è
letteralmente pietrificata dall’ammirazione, è
affascinata da lui e al tempo stesso, lo conosce intimamente
cosa che invece non succede a lui. Io vivo spesso questa
sproporzione durante gli incontri con i miei lettori:
loro mi conoscono intimamente perché leggono
le mie opere e io invece non so nulla di loro…
Questo squilibrio fa sì che spesso siano più
bravi a parlare con me di quanto lo sia io con loro.
Come
ha scelto Catherine Frot e Albert Dupontel?
Quando ho finito di leggere la storia mi sono chiesto:
«Chi saranno gli attori?» Dupontel si è
imposto quasi subito perché è un attore
che ammiro dai tempi di Un héros très
discret. Lo trovo originale, capace di qualunque cosa,
dotato del senso dell’esagerazione e di una grossa
fantasia. E’ un attore che mi appassiona e volevo
fargli interpretare il personaggio del clown triste,
perché era un ruolo che non aveva ancora mai
interpretato ma che sapevo gli sarebbe stato congeniale.
Per me, è un vero animale da cinema perché
riesce ad essere espressivo anche se è inquadrato
di spalle, dal basso, dall’alto, di fianco…
Recita con tutto il corpo, come i grandi del cinema
americano. Il nostro incontro è stato alquanto
buffo perché lui deve aver pensato che in fondo
io non lo conoscessi quasi per niente ed io ho pensato
lo stesso di lui. Alla fine, abbiamo scoperto che io
avevo visto praticamente tutti i suoi lavori e che lui
aveva letto la maggior parte dei miei libri! Diciamo
che in segreto già ci desideravamo a vicenda.
Dimostrando un grande coraggio, si è affidato
completamente a me per esplorare le sue zone di fragilità,
di stupore amoroso e di ingenuità che sono dure
da mandar giù per un uomo. Abbiamo lavorato in
perfetta armonia.
E
Catherine Frot ?
Ho pensato a lei perché risolveva un’equazione:
sognavo un’Odette che fosse al tempo stesso carina
e buffa. Una donna buffa ma non al punto da cadere nella
farsa e quindi dovevo evitare le attrici puramente comiche.
Come ho detto, doveva anche essere carina e raramente
le attrici carine sono comiche e buffe. Ed è
stato praticamente questo ragionamento che mi ha condotto
a Catherine! Per fortuna mi ha detto subito di si ed
io ne sono rimasto letteralmente affascinato! Durante
le riprese ci ha lasciati letteralmente di stucco per
la maniera in cui si è immedesimata nel personaggio.
Viva, gioiosa, commovente, graziosa, pronta a tutto,
ci ha veramente incantati. Inoltre, ogni settimana,
mi veniva a ringraziare per averle affidato questa parte
e credetemi, questa è una cosa che ti mette veramente
di buon umore!
Che cosa ha provato quando
ha visto Odette interpretata da Catherine Frot?
Mi è sembrata di gran lunga migliore di quanto
pensassi! Con Catherine, c’è la poesia
e c’è il distacco. Molte donne non osano
mostrarsi con gli occhi sognanti, non vogliono far emergere
tutto il loro candore o energia…Mi ha fatto pensare
a un Jacques Villeret al femminile. Sono attori che
si amano perché sono sempre al limite del ridicolo
ma si mantengono sempre dal lato giusto senza cadere
nell’eccesso. Mi spiace che il mio esordio tardivo
dietro la macchina da presa mi abbia privato della possibilità
di lavorare con Villeret.
Che
cosa le piace del dirigere gli attori?
Non si dirigono gli attori ma gli si spiegano le proprie
intenzioni prima che comincino a recitare, gli si spiega
tutto affinché capiscano che ciò che è
scritto nella sceneggiatura non è frutto del
caso, e li si guarda con affetto aspettandosi che ti
diano il meglio. Per esempio, la scena dello schiaffo
era tutta scritta nei minimi particolari. Nulla è
stato improvvisato. Dirigere è soprattutto dare
fiducia agli attori. Quando li si guarda con occhio
esigente e benevolo, gli attori possono fare qualunque
cosa.
Quando è felice,
Odette spicca il volo e questo porta alla creazione
di scene molto oniriche. E’ un’idea di regia
che aveva sin dall’inizio o ci ha pensato dopo?
E’ un’idea che mi è venuta in fase
di scrittura. Tutte le metafore e le immagini della
scrittura diventavano per me immagini cinematografiche.
Quando Odette è felice, spicca il volo; quando
è in bagno e si immagina nella foresta vergine,
ecco apparire la foresta. Durante le riprese ho girato
tantissime scene di fantasia ma poi, durante il montaggio,
ho dovuto limitarle per non mettere a repentaglio la
credibilità della storia.
L'aspetto
tecnico del film è stato fonte di angoscia?
No, perché ho potuto fare affidamento su una
troupe preparata e generosa. E poiché sono un
regista debuttante, il produttore e la Pathé
mi hanno circondato dei migliori tecnici sulla piazza.
Mi hanno fratto incontrare tantissimi cameraman, scenografi,
aiuti, ed io li ho scelti non tanto sulla base delle
loro competenze quanto delle qualità umane pensando
al fatto che avrei dovuto passare circa sei mesi in
loro compagnia. Ho scelto persone che erano intrigate
all’idea di collaborare alla realizzazione del
primo film di uno scrittore e alla fine abbiamo messo
insieme una troupe efficace, efficiente, attiva e creativa.
La
musica svolge un ruolo fondamentale nel film. Quali
indicazioni ha dato a Nicola Piovani per ottenere la
musica così leggera che si adatta alla perfezione
al suo film?
Sapevo da anni che il giorno in cui avrei deciso di
dirigere un film, la colonna sonora sarebbe stata di
Nicola Piovani.
E perché?
Perché ho visto e ascoltato ciò che ha
fatto con i fratelli Taviani, con Nanni Moretti, con
Roberto Benigni. Le sue colonne sonore hanno accompagnato
tanti grandi film italiani, soprattutto quei film al
contempo intellettuali e popolari che osano avere per
protagonisti dei personaggi semplici. Penso ai ruoli
interpretati da Sophia Loren, a personaggi dotati di
un grande cuore. E Nicola ha un grande cuore. E’
al tempo stesso generoso, popolare e raffinato.
Lei
ha detto: «Sono un regista che la sera vuole tornare
a casa sua.» E’ per questo che ha girato
in Belgio?
Esatto! Sono una persona molto pigra e devo ammettere
che ero talmente spaventato dalle responsabilità
che sentivo pesare su di me per questo mio primo film,
che tornare a casa mia a Bruxelles la sera non era un
semplice capriccio! Era l’unica maniera a mio
avviso per trovare la forza di fare tutto e bene. Temevo
sinceramente che non ce l’avrei fatta fisicamente
e psicologicamente e volevo meritarmi a tutti i costi
la fiducia degli attori e della troupe. Durante le riprese
mi sono sentito in debito, in “debito”,
esattamente come Odette! E’ un rapporto un po’
stupido ma dinamico che consiste nel tentare di meritare
ciò che ti viene dato.
Ha
messo insieme diversi attori belgi…
Sì. I figli di Catherine Frot debuttano sul grande
schermo con questo film. E per quanto riguarda i ruoli
minori, ho scelto dei grandi attori di teatro che hanno
accettato solo in nome dell’amicizia che ci lega.
Per esempio, nella scena dell’autobus, vediamo
Jacqueline Bir, la grande signora del teatro belga che
aveva interpretato Oscar et la dame rose. E’ un
po’ il risultato di una vita dedicata al teatro
e dei rapporti che ho instaurato con la gente nel corso
degli anni.
Il
libro è stato scritto prima o dopo la sceneggiatura?
Generalmente un film è l’adattamento di
un libro, ma in questo caso è successo il contrario:
è nato prima il film e poi il libro! Prima di
iniziare le riprese del film, stavo per scrivere un
grosso romanzo e mi avevano fatto firmare un contratto
che mi vietava di praticare gli sport violenti e la
scrittura. Mi sono talmente arrabbiato che durante le
riprese prima e durante il montaggio poi, non appena
avevo un momento libero, scrivevo delle cose che ora
fanno parte della raccolta! Finito il film, mi sono
detto che avrei scritto la storia narrata dal film che
di conseguenza è leggermente diversa da quella
che vedrete sullo schermo perché è il
mezzo espressivo ad essere diverso.
Pensa
che questo film potrà aiutare persone come Odette
ad avere a che fare con quelli come Balthazar ?
Non ho certamente questa pretesa ma non nego di nutrire
questa speranza. Si tratta semplicemente di liberare
la gioia vitale che noi tutti possediamo e che spesso
la vita e le sue convenzioni ci fanno dimenticare, mettendola
a tacere. La felicità è una questione
di sguardi, come lo sguardo che quella donna rivolge
a quell’uomo. O quello che quell’uomo rivolge
a quella donna, e che fa sì che la felicità
torni ad essere possibile.