Viene
da una realtà Brescia, che già da tanti anni ha
affrontato il fenomeno dell’integrazione degli stranieri,
dalle fabbriche alla scuola. Non è un mondo a lui sconosciuto,
ma non sono considerate persone piuttosto estensione dei macchinari
della fabbrica del padre, presenza anche simpatiche ma con cui
non è mai entrato in vera relazione, cosa che succede invece
sul barcone, ove lo fanno rinascere, gli donano una nuova vita.
Una
cosa che più colpisce è il finale, lasciato aperto...
Il finale che vedete sullo schermo non era l’originale previsto
dalla sceneggiatura. Il film chiudeva in modo più drammatico.
Una volta trovata Alina e scoperto che Radu il fratello/amante
l’aveva avviata alla prostituzione, Sandro ha una colluttazione
con Radu al termine dela quale Alina trovata una pistola, uccide
il fratello. Questo finale non ci aveva mai completamente soddisfatto
anche se chiudeva il film dal punto di vista drammaturgico in
maniera impeccabile, troppo. Aveva un che di dimostrativo, quasi
teologico nella morte violenta di Radu che quando mi sono trovato
a girare quella scena, ho sentito che non potevo chiudere così
questo film. Non tanto per il finale triste, quanto perché
avrebbe reso questa storia così estrema, fuori dalle righe
da non poter essere più paradigma di niente. Non sarebbe
più stato un film sui nostri rapporti con questo mondo,
ma un film noir...
Quello che avete visto è molto più semplice, perché
non succede praticamente niente; quello che accade è tutto
interno ai due personaggi, nel dolore in cui Sandro si rende conto,
capisce non nel dettaglio, il destino della ragazza nel non voler
rispondere alle sue domande, domande troppo feroci con risposte
ancor più dolorose. Entrambi rimangono soprafatti dal terribile
destino che questo mondo riserva ad Alina ed a questo punto anche
a Sandro, che reagisce come un bambino deve fare, ovvero piangendo.
Questo
è film che avrebbe potuto raccontare molte cose. Quanto
hai dovuto rinunciare per concentrarti invece sulla storia del
ragazzino?
Ho da subito deciso di sposare il punto di vista di Sandro e raccontare
le cose dal suo grado di consapevolezza, senza pregiudizi e con
quel tocco di innocenza tipico dei ragazzini.
Non mi è sembrato di aver dovuto rinunciare a niente. Noi
abbiamo la percezione di tutti questi elementi che sono lo sfondo
di una città, questi disperati che prima che stranieri
sono poveri, che sperano di arrivare qui e trovare un lavoro come
lo sperano i poveri italiani, i due scafisti per esempio. Tutto
e raccontato attraverso gli occhi di Sandro e ritengo che non
necessita di altra spiegazione, perché la spiegazione è
in conflitto con il cinema che racconta e non spiega. I film che
spiegano sono pretenziosi e sbagliati.
Il
finale previsto nella sceneggiatura era previsto già nel
libro?
Risponde la scrittrice Maria Pace Ottieri:
Il libro non è un romanzo ma un reportage narrativo che
segue il viaggio di un gruppo di clandestini da Lampedusa a Gorizia.
Marco lo ha letto ed oltre a cogliere il titolo (nome africano
di uno dei clandestini che ho intervistato nel libro) ha captato
delle idee, delle suggestioni che il libro ha in se. Dietro ai
dati che ogni giorno le televisioni ci raccontano ci sono tante
storie, un materiale narrativo inesauribile. I loro viaggio sono
epici ed antichi. Ognuno di loro ha un unico bene da portare con
se, la propria biografia, la propria storia che al contempo ne
contiene molte altre, avendo avuto queste persone esperienza di
vita assai maggiori di quanto non ne possiamo avere avute noi.
Giordana,
perché Brescia?
Brescia è una città in cui il fenomeno dell’immigrazione
si è proposto prima che in altre città d’Italia
e dove, sebbene non risolto completamente, avendo bisogno della
manodopera di questa gente, si è posto il problema di come
risolverlo.
E’ forse la città più multi-etnica d’Italia
e la presenza degli stranieri non dà quella sensazione
abusiva, irritante che c’è negli abitanti autoctoni
di altre città come Milano, Torino, Padova ed anche Roma,
abituate ad averli più come clandestini che non come integrati.
Immagino
lei si sia posto il problema di affrontare un tema che può
facilmente scivolare nella retorica. Ha sentito questo rischio?
Come lo ha risolto?
La dimensione del retore io la respingo con forza. L’antidoto
risiede nella secchezza tagliente dello sguardo. Io aborrisco
la retorica ed al cinema è imperdonabile in quanto lo rende
molto fasullo. E' un modo di nascondere non un modo di raccontare.
Il cinema usando la realtà per raccontarla, vi si attacca
con forza riuscendo in genere ad evitarla. Il problema non era
quello di essere retorico, che non rientra nella mia natura, ma
di essere esatto nella ricognizione di questo mondo. Il libro
è stato un qualcosa di più di uno spunto, in quanto
contiene quello sguardo di cui dicevo prima e che ho prestato
a Sandro; lo sguardo di uno scrittore che cerca di capire cosa
c’è dietro ad un fenomeno.
Uno sguardo che tenta di capire anche le persone che sono coinvolte
nel fenomeno non solo gli immigrati ma anche quelli che poi li
accolgono, forze dell’ordine comprese. La legge dice che
bisogna rimandarli indietro, ma non è il comportamento
della Guardia Costiera. La legge del mare dice che se qualcuno
è in difficoltà devi aiutarlo, il chè cozza
contro la legge di terra. Il nostro paese, pur con tutti i difetti
terribili che si porta dietro, è psicologicamente meglio
attrezzati di altri a capire quanto meno, avendo avuto in passato
una grande tradizione di emigrati.
Le
due figure dei trafficanti di clandestini, sembrano uscite dall’Isola
del tesoro di Stevenson, ed il film in alcuni passaggi sembra
un romanzo di formazione...
Sandro Petraglia: E' una
tentazione che abbiamo presto abbandonato. Le due figure degli
scafisti, sono molto simili a quelli che trasportano più
che due veri e propri banditi del mare. Il film ha molto di romanzesco
al suo interno, dalla caduta in acqua, al salvataggio, al ritorno
in Italia.
Marco Tullio Giordana: sono
contento che in filigrana si sia vista l’Isola del tesoro
come anche Capitani coraggiosi. L’atteggiamento del bambino
e l’innamoramento per certi personaggi proviene da questi
testi. Io più che drammatico, definirei il mio film drammatico-avventuroso
come quei film in Technicolor che vedevo negli Anni Cinquanta.
Il
messaggio che lei lancia è chiaro. Ha mai temuto, o teme
che questo non arrivi allo spettatore o che venga interpretato
in modo diverso? Ci sono elementi che potrebbero spingere a interpretazioni
contro gli immigrati.
Ogni film si presta all’interpretazione dello spettatore.
Più è complessa e ricca più il film è
riuscito. Non temo che qualcuno formalizzi la sua paura contro
gli stranieri, i clandestini, perché è una verità
e sarebbe ipocrita non ammetterlo. Il film lo fa. Ma questo pericolo
non deve precludere la strada a chi viene in Italia in cerca di
fortuna e non per delinquere.
In
poche battute lei prende posizione nei confronti dei centri di
accoglienza.
Innanzitutto oggi si chiamano centri di permanenza temporanea
e sono delle istituzioni terribili, delle prigioni. Detto questo
e che non si sa dove mettere questa gente e che qualcuno deve
pur occuparsene, ci sono centri che funzionano, centri che funzionano
male, malino, benino... bene è difficile perché
sarebbe come dire che funziona bene un prigione un luogo che concentra
e isola, congela il dolore e basta. Chi lavora li sta male quanto
chi vi è dentro, quindi non mi permetto di giudicare il
grado di efficienza. Ho però visto che spesso la gente
che sta lì, soffre e condivide. Sono anche affari, in quanto
lo Stato paga fior di rette per queste strutture che asportano
dalla società un problema, lo concentrano in un posto,
ce ne liberano. Ma sono posti comunque terribili.
Come
si pone questo film all’interno della sua filmografia?
E’ un film che giunge dopo tre opere (Pasolini,
I cento passi, La meglio gioventù) che erano in
gran parte ambientati negli anni Settanta, decennio che sentivo
di dover raccontare in quanto importante per capire l’Italia
di oggi.
Dopo mi sono detto che forse bisognava parlare dell’Italia
di oggi, che è molto interessante. A me piace raccontare
storie di personaggi, non problemi, non sono un sociologo. Mi
sono domandato chi fossero queste persone che io frequento, di
cui sono amico ma che al cinema non si vedono quasi mai. Sono
raccontati dalla televisione con grandi semplificazioni, mentre
bisognerebbe tornare alla realtà raccontando chi sono,
cosa fanno, cosa pensano. Io sono di quelle parti, sono rimasto
legato a quegli ambienti, che non amo in toto ma neanche ripudio.
Per raccontare la realtà bisogna un po’ anche amarla.
Unico
film italiano in concorso a Cannes...
E’ una grande opportunità per qualsiasi film avere
una vetrina internazionale di rilievo. Sono felice di essere stato
selezionato per il concorso. Vi sono avversari assai temibili,
quindi non aspettatevi niente, come me, in modo che questa spedizione
sia completamente felice. Essere li è un grande successo;
a Cannes vi è una grande tensione verso le cinematografie
di tutto il mondo, dalle grandi cinematografie dominanti, compresa
quella americana, sino alle minoritarie, per valutare lo stato
non della salute del cinema, ma lo stato dei film.
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