Far East Film Festival 7

[fabio melandri ]


Si è conclusa a Udine la 7° edizione del Far East Film Festival, la più importante manifestazione italiana dedicata al cinema popolare orientale, con protagonista cinematografie ancora inedite sul palcoscenico italiano Tailandia, Malesia e Filippine accanto ad altre in rapida ascesa come Hong Kong, Cina, Giappone e Corea del Sud che già contano numerosi affezionati.
Nello scenario del Teatro Giovanni Nuovo, il pubblico che ha affollato le otto giornate di proiezioni ha decretato con il proprio voto la vittoria del film Peacock di Gu Changwei – direttore della fotografia di Chan Kaige per Addio mia concubina e Zhang Yimou per Jo Dou qui debuttante nella regia -. Non una novità in campo europeo in quanto già vincitore all’ultimo Festival di Berlino, narra la storia di tre fratelli sullo sfondo di una Cina rurale alla fine della Rivoluzione Culturale attraverso un’eleganza formale ed una struttura narrativa che intreccia le storie dei tre fratelli con chiarezza e fluidità di discorso.
Ma al di là del concorso, il Far East Film Festival è un’occasione utile per tastare il polso di una cinematografia lontana, che da qualche anno a questa parte ha iniziato a gettare ponti verso l’occidente, contaminando il gusto visivo degli spettatori di tutto il mondo. E qui risiede in realtà il suo punto di forza e la sua debolezza. Se facciamo eccezione di cinematografie “esotiche” come quella Tailandese (di cui si può vedere sugli schermi italiani in questi giorni Tropical Malady) e Malese, per quanto riguarda Cina, Hong Kong e Corea inizia ad essere complicato assistere ad innovazioni stilistiche ed originalità narrative e di messa in scena. Volendo trovare comuni denominatori all’interno delle diverse cinematografie possiamo evidenziare con il cinema cinese stia percorrendo strade che puntano su una messa in scena classica, senza grandi balzi inventivi sulla composizione delle immagini e su storie che guardano al passato, alla Cina rurale, al difficile quanto fondamentale momento storico che il paese sta vivendo in questi anni, a metà del guado tra società rurale chiusa su se stessa e la volontà di aprirsi economicamente ma anche culturalmente all’occidente.
Hong Kong prosegue nella strada già intrapresa da diversi anni dell’action-movie, della messa in scena adrenalinica con storie e personaggi molto pulp tra cui segnaliamo Love Battlefield di Soi Cheang, un violentissimo action in cui un giovane infermiere viene rapito da una sanguinaria banda di rapinatori che mette a ferro e fuoco le strade di Hong Kong. Un film che incolla lo spettatore sulla sedia, senza lasciargli tempo di respirare e pensare con personaggi a metà strada tra il fumetto e l’ero tragico. Un film che potrebbe riscuotere un discreto successo nei cinema della penisola e che segnaliamo a qualche distributore volenteroso e lungimirante. Sempre per Hong Kong abbiamo avuto l’opportunità di visionare il penultimo lavoro di Johnnie To, Yesterday Once More, un autore che inizia ad essere conosciuto nel vecchio continente soprattutto per i frequentatori di festival (era a Venezia lo scorso anno ed oggi in concorso a Cannes). Il film presentato a Udine, girato parzialmente nel capoluogo friulano, è una commedia rosa incentrata sui continui battibecchi tra marito e moglie, due ladri che si rubano mestiere e bottino a vicenda. Se lo spunto poteva essere interessante e la messa in scena elegante, il film ha breve respiro e la coazione a ripetersi conduce presto lo spettatore tra le braccia di Orfeo...
Il cinema coreano segue in parte la via intrapresa da Hong Kong con una serie di action movie adrenalinici anche se con una inquietudine e sofferenza di fondo maggiore che li rende meno vicini al gusto occidentale ma in qualche modo più interessanti. Alcuni autori coreani iniziano a uscire nelle nostre sale vedi Kim Ki-duk (Ferro 3) o Park Chan-Wook (Old Boy) altri se ne aggiungeranno come per esempio Byun Young-joo e, mi auguro, Kong Soo-Chang. Di Byun Young-joo abbiamo parzialmente apprezzato Flying Boys una commedia che analizza i difficili meccanismi psicologici dell’età adolescenziale attraverso una rigorosa messa in scena che sbrodola solo nel finale, mentre il secondo è il regista di un piccolo horror di guerra che ha diviso il pubblico del festival, R-Point. Durante la guerra di Corea una squadra viene dispersa nella zona identificata come R-Point. Misteriose richieste di aiuto giungono al comando che decide di inviare una pattuglia di ricerca e salvataggio dei possibili sopravvissuti.
Sorta di triangolo delle Bermuda terrestre, in questa zona le leggi della logica vengono sovvertite, il piano di realtà si sovrappone a quello dell’immaginazione, il mondo dei vivi confluisce in quello dei morti. Un horror più di atmosfera, psicologico che non di sangue e viscere. Il regista grazie all’interpretazione degli efficacissimi attori ed alla costruzione di un’atmosfera inquietante attraverso l’accumulo di particolari, indizi, dettagli, crea uno stato di malessere psicologico che infetta uno dopo l’altro uomini, paesaggi e spettatori in sala. Un film che non svela tutto, non spiega, lasciando aperte porte in cui a nostra scelta possiamo o meno entrare e perlustrare.
Il film è stato visto all’interno di una giornata che il festival ha dedicato al genere horror. Chi si aspettava novità eclatante e brividi in salsa agrodolce è rimasto fortemente deluso. Dopo l’invasione occidentale di alcuni filoni da The Ring a The Eye ed il remake da parte americana di molti di questi, il genere horror orientale inizia a mostrare la cinghia, a ripercorrere strade e temi già toccati, dimostrando di avere poche idee in testa e ricalcando stilemi narrativi logori e dal respiro corto.
Urge una nuova rifondazione del genere, una ricerca di tematiche e messe in scena originali, che il mercato globalizzato ha contribuito velocemente a consumare e svuotare.
Perla della 7° edizione del Far East Film Festival è stata la retrospettiva dedicata alla mitica casa di produzione della Nikkatsu, attiva sin dall’età del muto ha conosciuto il suo periodo di maggior fulgore alla fine degli Anni Cinquanta attraverso una serie di film con protagonisti personaggi e storie prettamente giapponesi con il gusto dell’entertainment hollywoodiano. La Nikkatsu si cimentò in diversi generi, dal musical al western, dal gangster movie al melodramma, specializzandosi infine nei film d’azione. Tra i film della sezione segnaliamo Gangster Vip e Red Handkerchief di Masuda Toshio, Fast Draw Guy di Nomura Takashi, Palins Wanderer di Saito Buichi.
Chiudo questo veloce viaggio all’interno del Far East con una perla: Lady Snowbloood di Fujita Toshiya, un film diviso in capitolo sul tema della vendetta, in cui una giovane donna viene cresciuto con un unico obiettivo: uccidere coloro che furono la causa della morte dei suoi genitori. Vi ricorda qualcosa? Si? In effetti è il film che è stato di ispirazione, in vero qualcosa di più, a Quentin Tarantino per il suo Kill Bill che riprende anche il motivo musicale portante con The Flower of Carnage. Un film magnifico, asciutto, rigoroso, disperato per un tema, la vendetta assai di moda in questi giorni sui nostri schermi.