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Cala
il sipario sulla 16° edizione del Festival
di Cinema Africano (Milano, 20 – 26 Marzo
2006), che da qualche anno è aperto alle
restanti cinematografie del sud del mondo, ovvero
dell’Asia e dell’America Latina. La
produzione del continente nero presenta un vuoto
produttivo con conseguenti grossi limiti qualitativi,
e quindi è diventato negli anni quasi doveroso
per un festival di qualità affiancare in
concorso alle opere dei cineasti africani quelle
dei colleghi iraniani, cinesi, brasiliani, argentini
ecc.
A parte la nouvelle vague sudafricana ben rappresentata
al festival e con un fiore all’occhiello
come il recente Premio Oscar alla pellicola Tsotsi
(di Gavin Hood, presentato Fuori Concorso), il
cinema africano degli ultimi anni si è
nutrito principalmente delle opere che vengono
dal Maghreb. L’edizione 2006 lo conferma,
essa ha visto trionfare 2 coproduzioni franco-algerine,
vincitrici del Concorso Lungometraggi Finestre
sul Mondo e del Premio al miglior film africano.
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II
due premi sono andati rispettivamente a La
petit Jesuralem di Karin Albou (premio SACD per
la sceneggiatura al Festival di Cannes 2005) “per
aver affrontato il delicato tema del dogmatismo religioso
in una nuova prospettiva e per averci svelato con delicatezza
e sensibilità un mondo chiuso su se stesso”
e a Barakat! della regista
algerina Djamila Sahraoui; “il film rappresenta
un importante passo nell’ambito della rinascita
del cinema algerino e il fatto che sia realizzato da
una donna lo rende ancora più significativo”.
Il primo film, ambientato nella periferia di Parigi
in un sobborgo ribattezzato “La piccola Gerusalemme”
per l’alta concentrazione di ebrei, ha come protagoniste
Laura e Matilde, sorelle ebree di origini maghrebine.
Due donne che si confrontano continuamente con le complessità
e le contraddizioni della loro cultura d’origine
e della periferia parigina. Una s’innamora di
un arabo e l’altra viene tradita dal marito. Entrambe
si trovano a fare i conti da un lato con il senso di
colpa per il mancato rispetto dei precetti religiosi,
dall’altro con il desiderio carnale dell’amore
fisico e con quello passionale dell’amore intellettivo.
Il secondo film è ambientato in un’Algeria
ancora intrisa di fondamentalismo religioso, dove due
donne forti, due Thelma e Louise in salsa maghrebina,
partono alla ricerca del marito di una di loro sequestrato
a causa dei suoi coraggiosi articoli di giornale. Esse
si imbattono in mille avventure, in piacevoli e spiacevoli
incontri. Questo viaggio, spesso condotto a bordo di
un carretto trainato da un mulo, farà sì
che le due (colleghe in quanto dottoressa e infermiera
nello stesso ospedale) riescano a conoscersi più
a fondo e ad accettarsi.
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Film
coraggiosi che vedono le donne protagoniste. Da un lato
troviamo due donne oppresse e rassegnate, dall’altro
due donne forti e battagliere, e non è un caso
che sia donna la regista del secondo film. Due pellicole
che invitano alla riflessione sulle religioni, e danno
l’occasione per un’analisi sulla situazione
storico-politica dei due paesi coproduttori.
In una Francia recentemente devastata dalle violenze nelle
banlieus, il cinema dei migranti può diventare
una forma di protesta costruttiva che si contrappone alla
violenza e alla devastazione.
L’Algeria, dal canto suo, può trovare uno
strumento di ribellione costruttiva alla sua tormentata
storia: dall’occupazione francese ai recenti brogli
elettorali fatti da una Repubblica Presidenziale che puzza
di dittatura (a tale proposito ci preme sottolineare l’importante
documentario, presentato in concorso, Le
grand jeu – Algerie, presidentielle 2004
di Malek Bensmail, documento unico sulla campagna elettorale
di un candidato alle presidenziali in un paese arabo).
Il cinema può e deve in questi casi sfruttare la
sua grande forza comunicativa.
Il 1° premio del Concorso Documentari Finestre sul
Mondo è andato a Just Married
dell’esordiente regista israeliana Ayelet Bechar.
Si tratta delle storie incrociate di due coppie arabe
miste israeliane e palestinesi, una legge recente vieta
loro di poter vivere insieme in Israele. L’epilogo
è positivo: due maternità lasceranno un
futuro di speranza ai protagonisti, ed agli spettatori
di riflesso. Storia di amori proibiti, un toccante lavoro
nel quale, anche in questo caso, i rapporti fra opera
artistica e storia contemporanea sarebbero degno di un
maggiore approfondimento.
Il premio del pubblico va a Poet
of The Wastes (Iran/Giappone) di Mohammad Armadi,
storia dolceamara di censura politica e amori impossibili.
Ci preme dare rilievo a due cortometraggi di Brahim Fritah,
un giovane regista con doppio passaporto francese e marocchino:
Le train (2° premio Concorso
cortometraggi africani “per aver espresso con grande
abilità e padronanza tecnica una sorprendente metafora:
l’incontro di due personaggi che vivono in due mondi
diversi. Il film coglie la profondità della psicologia
dei personaggi e affronta con originalità i dilemmi
dell’esperienza di un immigrato in Europa”)
e La femme seule (presentato
fuori concorso nella sezione Panoramica sul cinema africano).
Il primo film trova nella contrapposizione fra la cabina
del treno, trasposto nel salotto di una casa con divani
e tavolini, e le immagini in esterni di rotaie, fili elettrici
e paesaggi dal punto di vista del passeggero, la sua forza
drammaturgia, la sua ambiguità surreale e il suo
fascino. Esso è realizzato con un bianco e nero
asciutto, senza fronzoli, che sottolinea l’incontro
tra un giovane studente e un uomo appena uscito di prigione.
Il secondo film racconta invece la vera storia di Legba
Akosse, ragazza togolese vittima della schiavitù
moderna, emigrata a Parigi con la speranza di un futuro
migliore, ma costretta tra le mura di una casa borghese
ad un mestiere di collaboratrice domestica senza rispetto
né prospettive. La voce narrante di Legba rimbalza
nell’appartamento e fa da colonna sonora ad una
serie di fotografie del nativo Togo e del moderno appartamento
minimalista parigino che scorrono per tutta la durata
della pellicola. Le uniche sequenze filmate sono quelle,
intense e ripetute, della lavatrice che girando fa finire
in un vortice senza ritorno colei che la usa giornalmente.
Citazioni d’obbligo per due buone pellicole extra-africane
in concorso: Sheng Sis Je
(Cina) di Li Shaohong (secondo premio “per la solida
scrittura filmica e per la padronanza della regia nel
rappresentare le contraddizioni della Cina di oggi”)
e Alma mater (Uruguay/Brasile)
di Alvaro Buela, menzione speciale all’attrice protagonista
Roxana Blanco.
Cinema di qualità quello visto a Milano in questa
settimana, a conferma del fatto che spesso le migliori
espressioni del genio artistico si nutrono sadicamente
di situazioni politico-sociali instabili. Iran, Algeria,
Israele, Marocco. Storie di privazioni, di ingiustizia
sociale, di dittature e di sudditi. Storie di povertà,
di indifferenza. Storie vere da affrontare insieme, ed
il cinema è un bellissimo strumento per l’inizio
di una riflessione.
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