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Lavori
in corso. Interruzioni sul tratto Atene-Venezia.
Noi
non siamo il messaggio. Siamo i messaggeri.
Il messaggio è l'amore.
Noi non siamo niente, voi siete il nostro tutto.
In
Così lontano, così
vicino di Wim Wenders un angelo scende dal cielo
e sussurra il proprio mandato. Consapevole e solitario
cerca il suolo. Il messaggio è l'amore. Cos'altro
altrimenti.
L'amore
fatto non solo di baci e carezze, ma soprattutto di
sguardi e pupille.
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Un amore per le cose belle,
uno stato di grazia che come un caleidoscopio prende colori
e forme differenti a seconda di come lo guardi. L'amore è
quello dei percorsi e delle emozioni, della capacità
di stupirsi oltre duemila anni dopo Cristo per eventi impercettibili
ad occhio nudo. Se penso a qualche universo parallelo nel quale
tutto possa ancora avere un valore trascendentale e dove le
emozioni prendano forma come la creta, dove possa ritrovare
i miei antieroi e tornare a vedere con gli occhi di un bambino,
penso al vecchio cinema del mio quartiere e al prato dietro
casa mia dove rincorrevo il pallone con le ginocchia sbucciate.
Adesso quando ho bisogno di loro so dove trovarli.
Cinema e calcio. Due cose da vedere prima che da fare. Due entità
di risonanza popolare formalmente e apparentemente distanti.
Ma se ci avviciniamo guardando con attenzione, tutto è
più nitido.
Calcio e cinema si assomigliano. Hanno gli stessi tratti somatici,
le stesse espressioni, ridono e piangono allo stesso modo. Entrambi
uniscono globale e locale, territorialità e identificazione
come poche cose in questo sistema solare. Anche gli interpreti,
attori e giocatori, se osservati con cura, sono speculari. Protagonisti
e antagonisti sullo stesso schermo, sullo stesso prato verde.
"Il cuore è solo un muscolo impazzito…"
recita Febbre dei primi Litfiba. Ma l'amore non passa solo dai
ventricoli.
Il caso della Grecia agli Europei di Calcio 2004 parla d'amore.
Indubbiamente. È la parabola sportiva più straripante
di magia degli ultimi anni. È il messaggio. Ci ricorda
come le cose possono spesso sfuggire alle teorie consumistiche
del Nuovo Millennio e al volere dei palazzi di cristallo. Le
leggi di mercato o quelle più ataviche di gravità
fanno corto circuito quando si tratta di un pallone e della
sua rotazione. Di un pugno di giocatori dati perdenti e con
gli occhi lucidi. Charisteas, Dellas, Vryzas, Zagorakis, Karagounis.
Riserve nelle proprie squadre di club o titolari in compagini
minori nell'Europa che conta poco e niente.
L'uomo a volte fa scattare l'orgoglio come una catapulta e si
lancia in aria col lodevole rischio di farsi male.
I lividi rendono immortali alcuni ricordi. Il cinema ancora
una volta ci viene in aiuto come un fratello. In Fuga
per la vittoria, indimenticabile film di John Huston
del 1981, durante una partita di calcio per la propaganda nazista
l'Undici della Resistenza torna in campo ad inizio ripresa rinunciando
all'evasione e alla libertà dalla prigionia tedesca.
Quel secondo tempo è amore. Qualcosa di non razionale,
che frulla come un mulinello e non si arresta, diventa impresa
proprio per la sua avversità al credo comune e alle dinamiche
ponderate. La rovesciata a rete di Pelè fluttuante come
un gabbiano è il simbolo della dignità di ognuno
di noi. "Il vigliacco muore mille volte, il coraggioso
una soltanto" diceva Shakespeare.
Ribadendo un concetto espresso in altri luoghi narrativi, mi
piace pensare che registi e allenatori mettano in scena allo
stesso modo uomini e figure come un cast, decidendo di loro
percorsi e traiettorie, zone d'azione, ruoli e copioni. Ognuno
col proprio stile e attraverso scelte tecniche personali, amalgamando
un cast, fortificando un gruppo di corpi e cervelli per uno
scopo comune, che a seconda dei casi prende il nome di film
o partita.
Il cinema e il calcio, registi e allenatori, attori e giocatori
hanno lo stesso odore, lo stesso profumo. Giocare ci rende autentici.
Immedesimarsi e far finta di essere un altro lo facciamo sin
da piccoli. Come infilare le scarpette e dare calci a una sfera
dopo la merenda.
Calcio e cinema sono giochi con i quali tornare bambini appena
ce ne sporchiamo le mani, come appena infilate nel barattolo
della marmellata della nonna.
Jorge Valdano, campione del mondo con l'Argentina nel 1986 ed
ex direttore generale del Real Madrid parla di Juan Sebastian
Veron, "[…] Il suo è un gioco cinematografico,
un nomade del centrocampo dal passo a campo lungo". E ancora
su Zinedine Zidane "È un elefante col cervello di
una ballerina. Ha una visione panoramica amplissima e sa sempre
cosa fare. L'hard disk che ha nella testa sembra mettere insieme
la storia del calcio europeo e quella del calcio sudamericano;
il risultato è un gioco universale". Un giocatore
che vede in 16:9 e sintetizza più ruoli in uno non può
che appartenere anche al cinema e ai suoi movimenti.
Ma mentre l'universo del pallone si svende agli sponsor più
ingordi, si prostituisce in tv per i diritti d'immagine e va
a braccetto con l'infertile mondo della tv, qualcuno ha iniziato
a chiamare il gioco del pallone col suo nuovo nome.
Adesso lo chiamano Spettacolo. Niente calcio grazie. Il cinema
di un certo tipo, ultimamente e con troppa frequenza, si avvale
di produzioni da capogiro e budgets plurimiliardari oscurando
i contenuti. Non è da meno dunque. Ci scaraventa sul
grande schermo film girati in posti inesistenti, personaggi
che abitano i non luoghi e si accampano nelle nostre sale illudendoci
come astronauti in sala giochi. Troviamo ancora la Grecia. Troy
di Wolfgang Petersen riesuma una civiltà ellenica troppo
hollywoodiana, tra improbabili dialoghi e aneddoti fasulli.
Il cast da botteghino, l'assenza degli Dei nella pellicola e
lo stravolgimento narrativo fanno di questo film l'emblema di
un'infedeltà collaudata al cinema più sincero.
Servono spettatori pensanti. Servono in sala atleti attenti
e scattanti. Servono nuotatori senza braccioli. Troppo facile
giocare a shangai con avversari affetti dal morbo di Parkinson.
Ma nonostante Petersen, lassù il 4 luglio qualcuno sgrana
gli occhi. L'Olimpo è incredulo. Zeus e il club degli
Dei guardano dall'alto l'impresa di comuni mortali che contro
ogni possibile immaginazione espugnano lo Stadio della Luce,
il Da Luz di Lisbona, accendendo il buio sul popolo lusitano
e piegando i padroni di casa davanti al proprio pubblico, conquistando
non solo il titolo di Campioni d'Europa ma una sacrosanta fetta
di storia. Le nuvole sono un ottimo luogo per sognare. Ma in
terra si scorre meglio, è qui che accadono i veri miracoli.
È qui che gli angeli di Wenders vengono ad ammirarci
e a prendere forma. Quella umana. È qui che il calcio
diventa poesia anche in mezzo al business più cruento.
Charisteas, centravanti da area di rigore è con i suoi
colpi di testa il simbolo vincente di questa Grecia, l'(anti)
eroe senza tempo ascritto ad una mitologia che arriva fino ai
giorni nostri. Vedere in semifinale Grecia, Portogallo e Repubblica
Ceca è una vittoria per lo sport. È una piccola
poesia in versi. La vecchia Europa di secolare dominio calcistico
scolorisce di fronte all'umiltà e alle virtù di
questi centurioni che dopo la sentenza Bosman del 1995 hanno
navigato come Ulisse da sponda a sponda in campionati a loro
non familiari, rubando segreti e meccanismi, lasciando la patria
per ritrovarla a metà strada.
Italia, Francia, Inghilterra, Germania, Spagna. Cancellate dalla
loro stessa presunzione, dalla gloria attesa per troppo tempo
su allori di vittorie passate. Tradite da finti giocatori senza
orgoglio oltremodo presi dallo star system televisivo e dalle
acconciature alla Shirley Temple. Piccole nazioni si sono rannicchiate,
si sono cucite sul petto la patria e un motivo e sono partite
per la terra del calcio. Lo stesso Portogallo dopo l'esordio
desolante con gli achei di Otto Rehagel, ha visto la tristezza
nei volti della gente, il pianto di un paese. Rimboccatisi le
maniche sono giunti in fondo con le parole di Figo "In
finale oggi non ci va una squadra, ci va un popolo intero".
Il cinema non trasmette forse la stessa solenne forza d'animo?
Non muove masse e ideali allo stesso modo? Lo specchio ci aiuta
a riflettere.
Probabilmente non ha vinto il bel gioco agli Europei di quest'anno.
Il calcio degli ellenici non è stato né affascinante
né offensivo; i cechi sotto questo aspetto meritavano
più di chiunque altro il titolo per sfrontatezza, coraggio
e tattica propositiva. Ma se si parla di bellezza, in questo
caso la troviamo proprio nella sua assenza. È semplicemente
bello ciò che è accaduto. Consapevolezza dei propri
mezzi e bruttezza estetica hanno trasformato l'anatroccolo in
un cigno biancoceleste. La Grecia ha avuto stile. Coerenza.
Umiltà. Merita la migliore interpretazione. "Chi
non possiede uno stile non crede in nulla. Nemmeno in se stesso",
scriveva qualcuno. Giustamente.
A settembre ci aspettano due lungometraggi, due diverse sfide
al passato. Alien contro Predator
di Paul A.W. Anderson, che riprende e incolla miseramente due
gloriose figure tra horror e fantascienza e Ora
e per sempre di Vincenzo Verdecchi, sulla storia del
Grande Torino. Metterli a confronto non avrebbe senso.
A ciascuno il suo suggeriva Leonardo Sciascia, ma i film da
seguire alla pagina 777 per i non viventi hanno già stancato.
Preferisco puntare sul fantasma di Valentino Mazzola e il profumo
delle maglie granata. I grandi uomini si meritano grandi ricordi.
Superga non è solo una marca di scarpe da tennis.
Quest'anno, inoltre, le Olimpiadi 2004 torneranno dove sono
nate. Tra le mura di Atene. Restituiranno alla geografia un
legame col passato e chiuderanno in parte un cerchio millenario
tra antichità e mitologia.
La Storia tra sport e cinema. La strada che unisce due contee
della stessa regione sentimentale, un ponte lungo come l'orizzonte
che collega stati d'animo, gesta eroiche e infarti comuni.
Dagli sfondi ellenici del kolossal di Wolfgang Petersen a quelli
lagunari della prossima Mostra del Cinema.
La 61esima. Quella di Marco Müller. Dai campi di battaglia
digitalizzati di Troy, ai campi
di calcio in erba, passando per le piste di atletica della capitale
greca. Ultima fermata Lido di Venezia. Suggestivo proscenio
di un cinema che tentenna come una moneta e chiede un volto.
Da Atene a Venezia dunque, passando per lo svincolo dei Giochi
Olimpici. Una Grecia ritrovata, una Venezia da riscoprire. Noi
non perdiamoci. Di notte sarà bene accendere i fari per
vedere cosa ci aspetta.
Se un'indimenticabile azione di contropiede o un sottile e fascinoso
controcampo. L'importante è giocare.