Tra
digitale e Legge Urbani: una riflessione su Cinema
Italiano e futuro dell’Ottava Arte
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[giuseppe
panella] |
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‘Fu
durante un Consiglio dei Ministri che Giolitti constatò
l'importanza pratica e morale del cinematografo: quando
scoprì che Filippo Meda, suo Ministro del Tesoro,
ne era appassionato. "È una mania",
concluse.‘
Pietro Bianchi
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1.
Temo che con l'avvento della Legge Urbani sulle 'provvidenze'
al cinema (in realtà, i benefici saranno solo per i produttori
e solo per 'alcuni' produttori - come ha già spiegato
Alessandro Antonelli nello scorso numero de "Il Grido")
e con la sempre più frequente utilizzazione delle tecnologie
digitali nella realizzazione e produzione di film si apra una
stagione molto difficile per il cinema italiano. Le grida al
recupero e alla riscossa che di solito accompagnano l'uscita
di un film a capitale nazionale che al botteghino incassa due
Euro più del (magro) solito non debbono trarre in inganno
chi voglia fare un'analisi più attenta. Il cinema italiano
rischia di essere schiacciato tra le sue due tendenze maggiormente
contraddittorie: la vocazione 'autoriale' che impedisce la realizzazione
di film 'di servizio' che non siano fiction per la TV (in Italia
tutti i film usciti in questi ultimi anni sono il frutto di
sceneggiature proposte dagli autori e non agli autori) e la
morte del 'film di genere' che costituivano tradizionalmente
la migliore palestra per i giovani registi in via di consolidamento.
Girare un horror o un western era il necessario 'rito di passaggio'
di autori poi divenuti capaci di trovare una via propria nel
futuro anche immediato.
L'aneddoto su Giolitti citato sopra può essere considerato
oggi soltanto un episodio simpatico e istruttivo che mostra,
in maniera lampante, come il cinema abbia dovuto faticare per
imporsi come componente a pari dignità delle altre nel
campo delle relazioni che articolano e strutturano il sistema
dei referenti culturali della società italiana. L'atteggiamento
di indifferenza (se non di blando disprezzo) nei confronti del
mezzo cinematografico da parte del grande statista piemontese,
non può essere considerato come un puro episodio di disinteresse
culturale personale.
L'unico momento in cui l'industria cinematografica italiana
venne presa sul serio dai politici al governo che ne gestirono
in proprio le crisi strutturali di produzione resta la parentesi
della politica culturale fascista. Questo, ovviamente, va detto
tenendo conto poi di tutte le conseguenze negative che ha comportato
sul suo sviluppo generale, non ultima l'imposizione di una censura
molto severa sui contenuti e sulle forme stesse di realizzazione
del prodotto cinematografico - un problema ancora oggi non avviato
a soluzione definitiva.
L'ambito attuale di riferimento per l'educazione all'immagine,
in ogni modo, resta pur sempre solo quello della dimensione
televisiva. Le immagini virtuali del medium catodico risultano
di gran lunga egemoni per la formazione dell'immaginario collettivo
della società. Nonostante le geremiadi di tanti grandi,
piccoli e minimi intellettuali contro il condizionamento della
'cattiva maestra televisione' biasimata da Popper, è
praticamente solo attraverso il piccolo schermo che l'educazione
all'immagine dell'immaginario collettivo (ciò che appunto
sulle immagini si forma) finisce con il passare e consolidarsi.
Il cinema resta la grande assente nelle politiche di rapporto
e di riassestamento della soggettività nell'ambito delle
analisi più generali riguardo le prospettive della formazione
culturale della società.
2. Il problema da affrontare non è tanto quello del pubblico
come entità astratta (e considerata solo in relazione
alla sua capacità di consumo) quanto quello della sua
concreta soggettività da investire nella sua riqualificazione
in termini di attenzione e di interessi culturali.
Di questa necessità si deve parlare al di là del
puro computo della quantità di biglietti venduti o dell'incentivo
pubblico alla produzione nazionale. Non è soltanto il
problema della diminuzione del pubblico a essere stringente
e drammatico quanto quello del suo impoverimento in termini
di scelta e di 'destino' culturale.
La necessità di porre l'accento sulla qualità
della fruizione soggettiva della produzione cinematografica
diventa oggi la questione fondamentale del rapporto tra la sua
dimensione produttiva 'tradizionale' e le strutture che si occupano
della proposta culturale e commerciale che a quest'ultima deve
far seguito. La funzione del linguaggio cinematografico è,
infatti, da sempre strettamente legata alla sua capacità
di trasformare e di ricomporre in un orizzonte di visibilità
condivisa le differenze, le asperità e le strozzature
di percorso che definiscono l'emergenza di nuovi soggetti e
di nuove condizioni di vita.
Il cinema è da sempre un laboratorio privilegiato per
leggere attraverso immagini definite e coerenti i percorsi e
le contraddizioni di una realtà altrimenti sfuggevole
e indefinita.
Le qualità formali del mezzo espressivo e delle sue capacità
di costruirsi come momento di comunicazione culturale emergono
soltanto in presenza di prodotti che non siano esclusivamente
al servizio della logica di consumo del cinema-merce.
È per questo motivo allora che se una legge come quella
firmata dal Ministro Urbani privilegia esclusivamente quest'aspetto
e sembra muoversi soltanto in tale direzione, l'utilizzazione
del digitale e delle sue tecnologie più avanzate non
rappresenta sicuramente quella soluzione adeguata alla crisi
della visione legata ad una soggettività urbana e "mediatizzata"
sempre meno ricca di contenuti critici e socialmente qualificati
con cui viene presentata e propagandata.
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