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L'ultimo
film di Sam Raimi ci ricorda l'amicizia quasi secolare
tra cinema e fumetto, uniti spesso in un unico calderone
di roboanti acrobazie, fantasia e riflessioni. Occhio
però ai surrogati senz'anima. Gulp!
Due
sono le scintille che accendono i nostri fuochi contemporanei
tra cinema e disegno. La fiammella antesignana è
datata 1896, data ufficiale del primo fumetto seriale
della storia con l'avvento di Yellow Kid grazie alla
mano di R.F. Outcoult.
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La seconda vampa, più
calda e profonda, è da ricordarsi nel lontano 1928. Il
18 novembre di quell'anno infatti nasce il primo film a cartone
animato con colonna sonora sincronizzata della storia, Steamboat
Willie, con un certo Topolino al timone di un vaporetto.
Quella piccola nave ha portato tutti lontano. Più tardi
e a colori arrivò come un arcobaleno nel 1940 Fantasia,
sempre della Walt Disney. Tutto si sciolse. Nel frattempo nel
1938 dal soggettista Jerome Siegel e dal disegnatore Joe Shuster
era nato Superman. L'anno successivo, nel 1939, un altro eroe
aveva visto la luce suo malgrado: Batman.
Il binomio cinema e fumetti ha dunque un sapore antico. Chilometri
di pellicola sono scorsi e tonnellate di strisce accumulate.
Ma oggi, di tutto questo comparto voluminoso e ricco di storia,
a noi arriva forse qualcosa di meno puro e più spettacolarizzato,
un ibrido. Una creatura cineattiva multicolore e anfibia tra
fumetto, film, cartone animato e videogioco. Akira
(1988) del giapponese Otomo, è il primo vero successo
moderno di film d'animazione, tradotto ed esportato su tutte
le terre emerse. La diffusione globalizzata di consolle e piattaforme
per videogames ha nettamente amplificato nell'ultimo ventennio
il potere mediatico di fumetti, manga, anime o eventi videoludici
nel cinema, regalando spesso un vasto successo di massa anche
tra i meno giovani. Le affinità spettacolari e pirotecniche
di questi generi rendono gli stessi fortemente assimilabili
da un cinema ‘Blockbuster style’ ad effetto scenografico,
diventando facile combustibile per frenesie motorie postmoderne
e iperattività. Ma il cinema attuale, specie quello di
un certo tipo, usa il fumetto per rievocare una nostalgia latente,
far leva su di una voglia di passato che ancora coviamo, riuscendo
spesso solo in parte, nella forma piuttosto che nell'intento
e nelle atmosfere. Il denaro e le aspettative economiche muovono
sentimenti artificiali, il lucro può ammaliare ma non
abita i cuori e non trafuga affetti e passioni.
Un caso isolato e degno di ricordo è The
Crow (1994) con Brandon Lee, da un fumetto di James O'Barr.
Originale, coerente al disegno e dalle atmosfere dark fu l'esempio
che riuscì ad unire la buona fattura alla recitazione
e ai risvolti di marketing. I più genuini e nostrani
Diabolik (1968) di Mario Bava e
Tex (1985) di Duccio Tessari con
Giuliano Gemma non hanno avuto il successo sperato e anche del
fantomatico Dylan Dog si sono spesso venduti i diritti qua e
là e poi se ne sono perse costantemente le tracce.
Prossimamente arriveranno, dalle Americhe sempre più
all'avanguardia, I Fantastici Quattro,
Ghost Rider (con Nicholas Cage),
Ironman, Daredevil
2, Hulk 2, X-Men
3 e Batman 5, mentre già
nelle sale, passato da poco The Punisher,
assistiamo a Hellboy e Garfield.
Un capitolo a parte lo merita Spiderman
2. Il secondo atto della trilogia (il terzo a luglio
2006) rappresenta quello che oggi è la combinazione fumetto-cinema
nella maggior parte dei casi. Applausi, folle in delirio, schiere
di consensi e botteghini ‘sold out’. C'è
dell'altro. Sam Raimi (L'armata delle
tenebre resta un cult movie e Darkman
un buon film) da’ vita a due lavori aracnofili che luccicano
e attraggono come splendidi forzieri. Ma dentro sono vuoti.
Il vero tesoro è il fumetto, la sua forza emotiva, che
nel film non si ritrova. Il concept del regista natio del Michigan
non paga la stessa moneta e lascia la polvere sul fondo del
baule. Svaluta il passato in un lavoro mastodontico sotto la
produzione e la promozione, arrivando a sbalordire solo chi
non vede oltre la tela. La trama seppur dinamica è ridondante
e frammentata, il testo banale, scontato e autoreferenziale.
La caratterizzazione dei personaggi, alla base di ogni buon
progetto, è pessima e molti dialoghi non stanno in piedi.
Questo da a tutto il lungometraggio un'andatura incerta e il
film barcolla come un pugile suonato. Già alle corde
non getta la spugna solo per i suoi veri motivi di vanto. Effetti
speciali, distruzioni, scontri fisici tra il protagonista e
il dottor Octopus (ottimamente interpretato da Alfred Molina)
sono all'altezza dei tempi. Le scene di arrampicamento del polipo
meccanico sui grattacieli e le piroette dell'Uomo Ragno durante
i corpo a corpo sono avvincenti e molto realistici. Il progetto
ruota esclusivamente attorno al visivo e al sonoro, perfettamente
riusciti, facendo poca attenzione al soggetto e alle sfumature,
relegando la saga di Spiderman al di sotto di pellicole di riferimento
di settore come X-Men 1 e 2, al
contrario molto ben realizzate. La fedeltà al fumetto
viene poi tradita in più di un'occasione:
1) Lo Spiderman cartaceo infatti non lancia la tela dalle vene
(!) ma da un attrezzo, una protesi meccanica;
2) La caratteristica di Spiderman sono i sensi amplificati,
l'agilità e una maggiore energia, non la forza bruta.
Ciò nonostante il nostro supereroe ferma una metropolitana
in corsa proprio come Superman o Sansone.
3) Peter Parker è nella striscia della Marvel un fotografo
sfigato, ma tuttavia brillante e ironico anche in situazioni
di pericolo. Tobey Maguire nel suo ruolo è piuttosto
un nerd alla massima esponenza con la faccia monoespressiva
da ebete e imbranato quanto il miglior Fantozzi.
4) La storia d'amore al gusto di melassa tra Spiderman e Marie
Jane è un'estremizzazione filmica indecente. Kirsten
Dunst risulta essere (a causa della sceneggiatura spicciola
e tirata via) poco credibile e dai voli pindarici troppo facili
in fatto di cuore. Innamorarsi di Tobey Maguire nel film è
impossibile se non sotto una buona dose di droga leggera. E
la stessa donzella risulta essere odiosa e permalosa come una
vecchia suocera. Un film che non trasmette niente a livello
emozionale, seppur si legga su alcune riviste specializzate
di una particolare chiave psicologica, riletta da regista e
produzione; una saggezza d'animo che Tobey Maguire e compagnia
non fanno però avvertire. Un sottotesto morale che stenta
ad arrivarci e che forse non esiste. Chi è convinto di
trovarci qualcosa di introspettivo ce lo trovi pure, magari
rimembrando solitari anche la scena finale del matrimonio o
la triste frase conclusiva ‘Corrigli dietro tigre!’
dove la Dunst tocca il fondo di una sceneggiatura che pare un
groviera. Infelice è invece il termine adatto per fotografare
come, ultimamente, Hollywood e le grandi case americane ci prendano
in giro riempiendosi le tasche. Se americanata sia, che almeno
sia come si deve e degna di essere vista da un pubblico come
minimo moderatamente intelligente.
Ma un dubbio mi tormenta. E se noi fossimo i veri eroi? Noi
che viviamo sulla corda la vita di tutti i giorni senza superpoteri
o metamorfosi? Sopravvivere di questi tempi è senz'altro
eroico. Nella lancinante e rabbiosa Severed dei Mudvayne si
apre uno squarcio in mezzo alle chitarre: ‘I can't be
the hero anymore…’ Tuttavia non posso essere l'eroe’
sussurra la voce mesta in una melodia che trasale. Le aspettative
di molti nostri simili sono pretenziose. Non cadiamo nel vuoto.
Siamo solo uomini, persone. Siamo eroi proprio perché
normali. Ma non ditelo a nessuno o dovremo tutti, prima o poi,
portare la maschera sul volto.