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[giuseppe
panella] |
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È
andata male, purtroppo. La battaglia di Michael Moore
contro Bush e la sua rielezione a Presidente degli Stati
Uniti non ha avuto successo. Il cinema - di fronte alla
pressione psicologica della paura e della disinformazione
su un'opinione pubblica arretrata e bigotta - non è
riuscito a svolgere quella funzione di risveglio delle
coscienze e di recupero di consapevolezza che si riprometteva.
Eppure Fahrenheit 9/11,
soprattutto nel primo tempo, è un gran bel film:
teso, graffiante, spesso sarcastico (le teste di Bush,
Cheney e Blair montate
sui corpi dei cowboys di
Rawhide che partono a spron
battuto per "farla pagare" ai
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nemici dell'America sono impagabili
caricature dei loro possessori).
Certo, nel secondo tempo, dopo il passaggio nelle periferie
dell'America provinciale e rurale, dopo il ritorno a casa del
figliol prodigo Moore alla natia Flint in Michigan, le interviste,
le grida e le lacrime delle madri in lutto possono sembrare
più televisive. Ma Moore, maestro dell'informazione televisiva
capace di insegnare a distinguere la verità sgradevole
dalle menzogne dorate degli apparati istituzionali, si riprende
con la scena finale in cui chiede ai deputati del Congresso
di mandare i loro figli a combattere in Iraq: una sequenza al
vetriolo che lascia con la bocca amara chi crede (ancora) alla
buona fede dei politici.
Fahrenheit 9/11 è
però un film importante soprattutto perché in
esso, per la prima volta, un Presidente degli Stati Uniti è
messo in scena con il suo nome e cognome e su di lui si da un
giudizio ben preciso al di fuori della fiction più o
meno ben documentata.
Facciamo un esempio: JFK (1991)
di Oliver Stone è un film che mescola con grande abilità
personaggi inventati e personaggi noti legati a quella vicenda
(dal procuratore distrettuale Garrison al senatore Long a Clay
Shaw, il presunto mandante dell'omicidio Kennedy). Le due parti
della ricostruzione sono intrecciate con abilità attraverso
il supporto narrativo offerto dagli spezzoni del film di Zapruder
che riprese in diretta quel che si vedeva della morte del presidente
americano. Ma, nonostante la direzione di Stone e l'eloquenza
di Kevin Costner nella sua requisitoria, il risultato tocca
poco gli spettatori: li diverte, li avvince, li annoia magari,
ma non li convince.
Lo stesso avviene con il micidialmente lungo Nixon
del 1995 (sempre diretto da Oliver Stone) - eppure, rispetto
a Tutti gli uomini del Presidente
(1976) di Alan J. Pakula che pure si concentra sugli stessi
personaggi, l'effetto è quello di un film posticcio che
vorrebbe mostrare tutto e finisce poi contemporaneamente per
nasconderlo. Perché? Forse perché nel film di
Pakula il Presidente non viene mai mostrato. E il suo volto
resta nascosto come quello dell'informatore (noto come "Gola
Profonda") che ne denunciò la complicità
nell'affare Watergate ai giornalisti del "New York Times".
Il cinema americano non è mai stato capace di mostrare
un Presidente (realmente vissuto o meno) senza trasformarlo
in un feticcio.
Il fatto è che c'è più "verità"
- da un punto di vista cinematografico, s'intende - in film
di pura fiction quali Azione esecutiva
(1973) di David Miller dove, senza mettere in scena Kennedy
e mostrandolo solo in filmati di repertorio, il suo omicidio
viene spiegato in base a ben precise analisi politico-sociali
e dove, a differenza che in JFK,
esse appaiono assai più credibili. Nell'ultimo romanzo
di Nicholson Baker uscito in Italia (Checkpoint,
Milano, Mondadori, 2004), uno dei protagonisti racconta dettagliatamente
al suo interlocutore telefonico come ucciderà Bush per
cambiare il corso della storia americana.
Moore ha provato a fare lo stesso abbattendo metaforicamente
il feticcio presidenziale. Solo in questo modo, l'America "vera"
sarà in grado di resistere all'influsso negativo del
"marcio" che pervade le "stanze del potere".
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