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volte ritornano. Poetica
e produzione del remake a Hollywood
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[giuseppe
panella] |
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"Inventare,
a Hollywood come ovunque, voleva dire ricordare. Rammentarsi
di una cosa era inventarla. I film più originali
son quelli meglio 'rubati'".
Questa
dichiarazione - sicuramente degna di essere meditata
e da approfondire successivamente in chiave storica
ed estetica - mi sembra assai importante. Il fatto che
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rilasciarla
sia stato Edgar G. Ulmer, uno dei tanti registi di origine tedesca
approdati ad Hollywood in seguito al nazismo ormai imperante
in Germania e poi finito a lavorare nell'industria cinematografica
americana (come Billy Wilder, Robert Siodmak, Fred Zinnemann
e Douglas Sirk con i primi tre dei quali condivise l'impresa
del celebre film Menschen am Sonntag del 1929) è forse
ancora più significativo.
Se Ulmer (non a caso autore di importanti film di serie B di
grande impatto popolare e dotato di una sua capacità
e vena inventiva non banale) fa questa dichiarazione, vuol dire
che a Hollywood la tendenza a recuperare dai film del passato
la materia per i film del presente non è soltanto una
moda dell'ultimo momento. Si tratta, in realtà, di una
pratica produttiva vigente fin dalle origini che mirava a favorire
e a privilegiare ciò che era già stato verificato
dal mercato.
E' fin dal principio, infatti, che a Hollywood la logica della
ripetizione si impone su quella del totalmente nuovo e dell'originalità:
il già visto (e conseguentemente il già approvato
dal pubblico) è preferito al nuovo in una logica che
privilegia l'industria rispetto all'innovazione linguistica
del mezzo espressivo.
Nella logica del remake il già detto e il già
portato sullo schermo, tuttavia, non sono una pura e semplice
ripetizione (o almeno non dovrebbero esserlo) nel momento in
cui diventano qualcos'altro in altro tempo e in altro luogo:
sono uno sviluppo (o almeno dovrebbero e vorrebbero esserlo)
di quel determinato soggetto o tema o spunto narrativo.
Il caso di Douglas Sirk che realizza proprio i suoi film migliori
a partire da film (spesso molto simili ma assai meno lavorati)
di Joseph M. Stahl è emblematico dello statuto mobile
del remake come genere: Sirk utilizza il testo narrativo dei
film di Stahl come un canovaccio sul quale intesse un disegno
completamente nuovo che va al di là della pura logica
del melodramma tradizionale.
Si prenda, ad es., La magnifica ossessione
(The Magnificent Obsession del
1953 - terzo dei film di Sirk di quell'anno) e remake di Al
di là delle tenebre (uscito con lo stesso titolo
originale nel 1935 per la regia del mestierante Stahl): in esso
ciò che nel film precedente era legato ad una dimensione
realistica che rendeva la vicenda (tratta non a caso dal romanzo
omonimo di un pastore luterano, Lloyd C. Douglas che intendeva
magnificare così il ruolo della Provvidenza divina nella
vita degli uomini) assolutamente enfatica e del tutto impraticabile
se non in alcuni momenti umoristici, Sirk sceglie la strada
della stilizzazione altrettanto assoluta e finge di credere
alla possibilità della storia che sta girando. Trasforma
una vicenda misticamente assurda in un esercizio di stile e
fa di un melodramma di taglio religioso un film quasi surreale.
Per questo motivo, la vicenda del milionario Merrick che, salvato
da un medico che muore per essersi troppo sforzato durante l'intervento
che lo salva, cerca di aiutarne la vedova, le procura involontariamente
la cecità e per questo motivo diventa un medico straordinario
e la opera, alla fine del film, rendendole ciò che aveva
perduto per colpa sua, diventa un trionfo della visibilità
cinematografica e riscatta una storia impossibile con una regia
attenta ad esplorare ciò che apparentemente il cinema
sembra negato a conoscere e visitare: il buio, la cecità,
l'assenza di visione.
Come ha scritto Alberto Castellano nel suo Castoro Cinema dedicato
a Sirk e al suo cinema:
"L'essenza
allegorico-religiosa del film e l'apoteosi del processo catartico
trovano un'efficace sintesi nella sequenza dell'operazione.
[…] Lo specchio rituale è sostituito dal vetro,
che può moltiplicare riflessi e simboli. Con questo
film Sirk riesce a fornire di logica estetica la vecchia soap-opera
hollywoodiana, rendendo tangibile il suo stile visivo (in
netto contrasto con i dilemmi astratti dei personaggi) ed
enfatizzando con gusto (le musiche di Beethoven) stati d'animo
comuni e sentimenti ricorrenti" (p. 68).
Analoghe
evidenze e passaggi di stile registico e attoriale illumineranno
gli altri tre remake firmati da Sirk: nel 1955 girerà
Quella che avrei dovuto sposare
(There's Always Tomorrow dal
film omonimo diretto da Edward Sloman nel 1934), nel 1956
Interludio (Interlude,
girato da Stahl nel 1939 e conosciuto in Italia come Vigilia
d'amore) e nel 1958 Lo specchio
della vita (Imitation of Life)
che era già stato un film di John M. Stahl del 1934.
In esse Sirk modifica le impostazioni precedenti della storia
e privilegia la dimensione individuale e soggettiva del racconto
che sta filmando. A differenza di Stahl, ad es., che aveva
dato una dimensione fortemente ottimistica e "progressiva"
al film (il cui scopo era quello di mostrare come in America,
negli anni Trenta del New Deal rooseveltiano, ognuno poteva
raggiungere il successo tramite sacrifici personali e determinazione
a sfondare), Sirk preferisce ripiegare sull'ambiguità
presente nella vicenda e ne accentua i caratteri (uno dei
personaggi è una meticcia e vive nella "terra
di mezzo" tra bianchi e neri).
"Meditazione estetica e filosofica conclusiva, film sulle
distanze (tra la gente, tra la percezione e il mondo, tra
l'arte e la vita), Imitation of Life è il melodramma
sirkiano più denso di significati metafilmici. Opera
imperniata sulle imitazioni e quindi sulla simulazione, si
articola su due piani diegetici messi in cortocircuito"
(Alberto Castellano, Douglas Sirk, Firenze, La Nuova Italia,
1987, p. 91).
In questa mia sommaria esposizione, Sirk è stato privilegiato
proprio in quanto maestro di remake, dato che è forse
stato il regista che ha fatto di questa categoria estetica
il vessillo di battaglia della propria poetica di regista.
Diversamente da Sirk (ma si potrebbe citare anche Don Siegel
come autore di interessanti recuperi di soggetti e sceneggiature
del passato - come Agguato nei Carabi
del 1958, brillante replica di Acque
del Sud (To Have and To Have
Not di Howard Hawks del 1944) che si è
rivelato in questo modo autore di film che "ripetevano"
altri film ma con un taglio assolutamente personale, che cosa
succede oggi di fronte ai numerosi remake che Hollywood propone
spesso in mancanza di meglio?
Riservandomi di tornare sull'argomento in una prossima puntata,
va detto che la differenza maggiore tra film del passato e
loro "rifacimento" contemporaneo è sicuramente
legato alla loro diversità di realizzazione tecnologica.
Il remake della postmodernità ha come propria giustificazione
non la storia che racconta ma la dimensione tecnologica che
gli corrisponde. Storie già girate molte altre volte
vengono riproposte alla luce delle possibilità visive
presenti nella tecnologia digitale. Il tutto della visione
del digitale allarga il campo del visibile limitato dalla
pellicola tradizionale e permette di mostrare ciò che
prima non si poteva. Ma se si limiterà a questo (a
mostrare la realtà della potenza della tecnologia)
il digitale non comporterà nessun salto di qualità
estetica così come aveva promesso.
Rigirare con l'ausilio del digitale The
Time Machine (come hanno fatto assai male Simon Wells
e Gore Verbinski nel 2001) o Rollerball
(replicato con esiti assai dubbi dal pur valido John McTiernan)
o rifare La caduta dell'Impero Romano
di Anthony Mann con il diverso titolo de Il
Gladiatore (come ha fatto Ridley Scott nel 2000) serve
a rilanciare le possibilità estetiche dello strumento
cinematografico o sono soltanto l'ennesimo trionfo della macchina
del cinema come "fabbrica dei sogni " e strumento
per realizzare enormi guadagni?
Se il remake viene incontro alle esigenze di un pubblico che
si ritrova in quello che ha visto (in realtà perché
lo aveva già veduto in un'altra occasione), è
anche vero che la sua realizzazione ha una funzione effettiva
solo se innova il codice linguistico del cinema (e non ne
ripropone - come sta accadendo piattamente ora - stilemi e
pratiche con il solo ausilio di una tecnologia che, per quanto
nuova, riempie lo schermo soltanto di se stessa).
Il remake o sarà un film diverso dall'originale o ne
sarà una copia che si rivelerà inutile (anche
ai fini del maggior guadagno al botteghino).
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