Uno scrittore
in crisi. Un cane alcolizzato. Una squallida bettola. Sonoma,
California.
James Crumley non è autore molto noto in Italia. Di recente,
la collana Stile Libero di Einaudi ha rispolverato alcuni capolavori
dello scrittore americano, in corrispondenza con l’uscita
del suo ultimo libro, La terra della menzogna.
In questa breve disamina, si prenderà invece in considerazione
L’ultimo vero bacio, quello
che è universalmente riconosciuto come il capolavoro di
Crumley. Abraham Trahearne è uno scrittore in crisi. E
in fuga. Seguendo una mappa immaginaria che assomiglia più
ad un frattale che ad un percorso prestabilito, Trahearne attraversa
l’intero West, ciondolando da un bar all’altro, scivolando
su fiumi di birra, dormendo in squallidi motel, preparandosi così
alla successiva sbronza, senza che la precedente abbia minimamente
smaltito i suoi effetti. Un viaggio seguito, passo per passo,
anche e soprattutto nella sua deriva alcolica, da C. W. Sughrue,
detective privato, convinto dall’ex moglie dello scrittore
– grazie ad un sostanzioso assegno – a recuperare
l’itinerante scrittore. “Mi ritrovai a dare la
caccia ai fantasmi su grigi passi di montagna, per poi ridiscendere
in rigogliose valli ancora crivellate dalle nevi di inizio primavera.
Presi a dormire negli stessi suoi motel […] Una volta, in
un assembramento di roulotte ai margini del deserto del Nevada,
mi scopai pure la stessa sfigata puttana” (pagg. 9-10).
Dopo tre settimane, Sughrue riesce a scovare Trahearne in una
bettola di Sonoma (California), intento a centellinare –
accanto al suo anomalo compagno di bevute, Fireball, un bulldog
– una birra dopo l’altra, in pieno delirio alcolico.
Missione compiuta? Tutt’altro. Il detective fa la conoscenza
di Rosie, proprietaria dello sgangherato locale, che ormai da
dieci anni è alla ricerca di Betty Sue, la figlioletta
scomparsa all’età di diciassette anni. “Avevo
già visto Rosie, nel suo vestito buono e con un paio di
scarpe comode, arrancare per i saliscendi di San Francisco, pronta
a scrutare ogni muso sudicio che incontrava a ogni angolo di strada
per poi metterlo a confronto con la foto che teneva tra le mani,
tanto per accertarsi che non fosse la sua bambina, quella che
si nascondeva dietro un cesto di capelli incolti, qualche collanina,
una bocca livida e un paio di occhi sconfitti” (33).
Sughrue decide di accettare l’incarico per la “faraonica”
somma di ottantasette dollari. Da lì iniziano i suoi guai.
Nel libro, Crumley affronta i territori della letteratura di genere
(in questo caso del noir e dell’hard-boiled) in maniera
assai consapevole. Perfettamente conscio del debito nei confronti
di Raymond Chandler, tesse una narrazione che sarebbe piaciuta
anche al padre del detective Marlowe, riuscendo però a
ricavare degli spazi di originalità. Molta ne emerge nella
commistione di generi che attraversa il testo. L’autore
prende a piene mani dalla letteratura on the road – quella
che ha in Jack Kerouac il suo massimo cantore – e mostra
come l’esperienza del viaggio sottintenda sempre un transito
non solo fisico ma anche spirituale e culturale. Sughrue è
un vero e proprio cacciatore, un segugio, spesso alcolizzato come
il simpatico Fireball, ma sempre estremamente lucido. Si muove
su spazi molto ampi che hanno i loro confini in quella regione
mitologica, così ricca di archetipi alla base dell’immaginario
collettivo moderno, che è il West. L’epopea della
Frontiera rivive qui non certo nella dimensione di un Eden da
conquistare, né in una lotta contro le forze naturali,
soverchianti talvolta, ma spesso in grado di essere domate. Nel
libro, il West è territorio di conflitti, spazio in cui
non è più chiaro chi siano i buoni e chi, invece,
svolga il ruolo dell’antagonista. Una tendenza ormai dominante
anche nella produzione cinematografica incentrata sulla messa
in scena della Frontiera. Lo stesso Sughrue è un vero e
proprio antieroe, se la sa cavare nelle situazioni complicate,
ma rimane un vagabondo, reduce di una guerra persa, spesso drogato,
altrettanto frequentemente alcolizzato. Il divertimento? Spararsi
il quinto drink in una città sconosciuta. “Di
solito, quando passavo notti insonni al gabinetto, finivo per
scrutarmi allo specchio, a lungo, nel tentativo di trovare nel
mio viso abbrutito dalla stanchezza e dall’alcol una qualche
traccia di quel che sarebbe stato, se non ci avessero messo mano
tutti quegli anni buttati via, tutti quei bar, tutte quelle lunghe
nottate” (128).
La figura di Sughrue richiama inevitabilmente quella di Philip
Marlowe, l’investigatore nato dalla penna di Raymond Chandler.
Cinismo alle stelle, ironia mista a sarcasmo, risposte sempre
pronte, taglienti. Antieroi, si diceva in precedenza, a spasso
fra corruzione e delinquenza, nel marcio che si annida anche fra
le classi agiate. Ma se il rigore morale e l’onestà
di Chandler, seppure ricchi di disincanto, appaiono sempre evidenti,
per quanto riguarda Sughrue queste doti emergono in modo più
altalenante. Il contesto in cui si muove Marlowe è la metropoli,
Los Angeles e i suoi sobborghi, tutto si genera dalla mancanza
di etica insita nella grande città. Sughrue, invece, ha
un ufficio a Meriwether, Montana, con una splendida vista sul
traboccante cassonetto del discount. Meriwether è, però,
il punto di partenza per un’avventura che spazia, senza
soluzione di continuità, fra Montana, California, Oregon
e Colorado.
La gigantesca area in cui scorrazza Sughrue è privata della
sua dimensione di grandezza – con cui viene spesso rappresentata
sul grande schermo – è fatta di motel e bettole che
costituiscono veri e propri avamposti della disperazione. Prevale,
fortissima, la componente nostalgica. Non tanto, come ripeto,
nei confronti di un Eden deturpato dall’intervento dell’uomo
bianco. Piuttosto, verso un passato recente, fatto di automobili,
bar, oggetti come le pompe di benzina che hanno un loro fascino
solo perché richiamano alla mente tempi altri.
“Un piccolo gregge di auto abbandonate […] spuntava
tra le erbacce polverose, con le ormai vuote cavità dei
fari ancora in preda ai sogni di gloria, dall’illusione
di credersi Pegaso a chissà quali volate sull’asfalto.
Quel posto neanche ce l’aveva, un nome, ma solo un’insegna
mezza stinta che ancora prometteva birra nel suo dondolare dal
cantone del portico. Le vecchie pompe di benzina, con la sommità
in vetro, erano da tempo sparite – a Sausalito, magari,
a far la guardia a qualche negozio d’antiquariato –
ma i rugginosi ancoraggi delle loro basi ancora si dipartivano
dal piano stradale, simili alle dita di uno scheletro che spuntano
da una tomba poco profonda” (11-12).
L’epopea del cavallo diviene dunque quella della macchina,
una El Camino rosso autopompa, tutta cromature e design, una vera
belva, come la osanna Sughrue. È il mezzo con cui affrontare,
solitari, migliaia di chilometri nella prateria, oggi solcata
da grandi arterie di scorrimento. Rimane, comunque, l’odore
della pista da seguire, finché è calda, ma in realtà
anche dopo, perché un buono sceriffo (detective) è
in grado di riannodare fili sciolti ormai da anni.
Noir, hard-boiled, on the road, western. Senza dimenticare la
componente sentimentale. Le numerose donne che affollano il romanzo
sono forti, decise, in grado di ordire complesse trame. Sono libere,
disinibite, ciniche e nevrotiche. Sempre straordinariamente lucide
e calcolatrici.
Fra di loro si fa presto a trovare quella che, già in partenza,
è un amore perduto. Anche se, in realtà –
è il rimpianto di Richardo Hugo, poeta e scrittore –
l’ultimo vero bacio ricevuto è roba di anni e anni
fa. [gianpaolo
bonuso] |