È
stato detto che le due grandi linee interpretative da seguire,
se si vuole capire l’epoca in cui viviamo, sono quelle
tracciate da Karl Marx (1818-1883) e da Max Weber (1864-1920):
pertanto, chi intenda venire a capo dell’Età moderna,
non ha che da indossare le “lenti” interpretative
di Marx o quelle di Weber , senza però pretendere di
sovrapporle, perché esse si escludono a vicenda. Il punto
comune da cui questi due grandi pensatori prendono le mosse
nelle loro indagini è la constatazione che il nostro
tempo è signoreggiato da una forza fatale – il
capitalismo – che si è imposta con la stessa necessità
con cui il destino dominava nelle tragedie greche: e, inscindibilmente
connesso a questo problema, che costituisce il fulcro delle
loro indagini, ve n’è un altro, quello del destino
dell’uomo nel mondo contemporaneo. Proviamo ad addentrarci
nella prospettiva di Weber, indossando, come dicevamo poco sopra,
le sue lenti interpretative.
L’idea di Weber è che l’Occidente abbia avuto
quello che egli chiama uno “sviluppo particolare”,
diverso da quello di tutte le altre civiltà: a differenza
di queste ultime, infatti, soltanto la civiltà occidentale
è stata travolta da una razionalizzazione così
radicale e onnipervasiva da investire tutti i sistemi di credenza,
le strutture familiari, gli ordinamenti giuridici, politici
ed economici, la scienza e addirittura le realizzazioni artistiche.
Occidente è allora, nella prospettiva weberiana, sinonimo
di razionalità: una razionalità che s’è
potuta dispiegare, nota Weber, non malgrado il Cristianesimo,
bensì in virtù di esso. Infatti, al cuore del
messaggio cristiano non v’è forse quella convinzione
dell’assoluta trascendenza del divino (posto nell’“alto
dei Cieli”), rispetto al quale la realtà terrestre
del nostro mondo è oggettiva, priva di significati magici
e, dunque, manipolabile dalla volontà umana? Proprio
grazie a questa dicotomia per la quale il divino sta in cielo
e l’umano sta in terra, l’Occidente ha conosciuto
il fenomeno di una crescente razionalizzazione giunta all’apice
con le scienze, nella loro duplice forma di “scienze della
natura”, le quali spiegano i fatti fisici, e “scienze
dello spirito”, le quali comprendono le dinamiche della
società. Una dicotomia che, in verità, può
suscitare qualche perplessità non appena si consideri
il ruolo tutt’altro che favorevole che, storicamente,
ha svolto il Cristianesimo istituzionale nei confronti della
scienza nell’Età moderna; una dicotomia che, del
resto, può non convincere anche se si considera che,
in fin dei conti, il tentativo di spiegare razionalmente il
reale in ogni sua piega era già stato avviato, secoli
prima, dalla filosofia greca. Ma la forza e la suggestione dell’analisi
weberiana risiedono anche (forse soprattutto) nei dubbi e nelle
perplessità che essa è in grado di suscitare.
La razionalizzazione che tutto travolge nel suo avanzare ha
un risvolto pratico strepitoso: essa porta infatti a un vero
e proprio “disincantamento del mondo”, tale per
cui il mondo si va sempre più svuotando degli dèi
e delle tante forze misteriose che lo popolavano in passato,
dell’aura magica che lo avvolgeva, trasformandosi in semplice
oggetto e teatro dell’agire umano. Tutto è ricondotto
sotto l’egida della ragione, con la conseguenza che il
mondo diventa sempre più “mondo dell’uomo”
e del suo agire. Più precisamente, la crescente razionalizzazione
fa sorgere il disincanto nella misura in cui ci permette di
“dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale”,
senza più essere succubi di quelle forze misteriose e
trascendenti che ormai non hanno più cittadinanza in
questo mondo. Ben si capisce, allora, perché per Weber,
al giorno d’oggi, l’ateismo sia l’unico modo
di pensare realmente onesto e disincantato È esattamente
grazie all’impiego della tecnica e della scienza (le quali
producono una sempre maggiore intellettualizzazione del mondo)
che il disincanto trova il suo più fertile terreno di
sviluppo, concretizzandosi in quell’“agire razionale
rispetto allo scopo” sul quale Weber si sofferma diffusamente.
Che il mondo si razionalizzi non significa, tuttavia, che in
esso ciascun uomo sappia ogni cosa: su questo punto, Weber è
chiarissimo. Sicuramente, sa molto di più l’indiano
sulle frecce che usa per cacciare di quanto noi non sappiamo
del tram su cui viaggiamo per andare al lavoro: la differenza
fondamentale sta nel fatto che noi, a differenza dell’indiano,
se volessimo, potremmo sapere tutto del tram, poiché
nel nostro mondo “tutte le cose possono – in linea
di principio – essere dominate dalla ragione”.
In quest’ottica, il capitalismo segna per l’appunto
il trionfo della razionalità e, di conseguenza, del disincanto
di un mondo ormai ridotto a teatro dell’agire umano in
vista di ben determinati scopi. Il capitalismo non è
che il trionfo della razionalità su ogni fronte, nella
misura in cui esso si configura come un particolare tipo di
società caratterizzata dalla ricerca razionale dei profitti,
dall’organizzazione razionale del lavoro formalmente libero,
dallo scambio di mercato razionale, da procedure razionali di
contabilità, da sistemi politici e legali razionali.
Com’è noto, il capitalismo era agli occhi critici
di Marx la quintessenza dell’ingiustizia, dell’alienazione
e della reificazione umana e, proprio perché tale, doveva
essere abbattuto in nome di una società diversa e più
giusta. Invece, per Weber (e qui si capirà meglio che
altrove perché le sue lenti interpretative non sono sovrapponibili
a quelle marxiane) il capitalismo è l’inaggirabile
esito del processo di razionalizzazione che ha coinvolto tutti
i settori, caratterizzando il singolare sviluppo dell’Occidente.
Se è vero che la razionalizzazione è il tratto
essenziale della nostra civiltà, allora è anche
vero che il capitalismo, che del processo razionalizzante è
il punto culminante, è la “vocazione” dell’Occidente,
una forza sopravvenuta in maniera fatale e, dunque, inevitabile.
Imprigionato in quella “gabbia d’acciaio”
che è il capitalismo, l’uomo non deve, secondo
Weber, illudersi di poterne forzare le sbarre per evadere (come
fantasticava Marx): deve piuttosto cercare, senza illusioni
e chimere, le chances di libertà all’interno di
una gabbia le cui sbarre sono quelle di un destino inevitabile.
Sembra che la realtà storica abbia dato ragione a Weber,
nella misura in cui ancora oggi (e forse più di ieri)
il capitalismo sembra il destino tragico che domina l’Occidente
e che anzi tende sempre più a inglobare ogni altra parte
del mondo, come se la razionalizzazione avesse preso ad avviluppare
anche le altre civiltà. Eppure siamo ancora in tanti,
con Marx, a rifiutare di scendere a patti col mondo, convinti
che non c’è destino che non possa essere rovesciato
dall’uomo e dalla sua prassi diretta a un mondo migliore
che non s’è ancora realizzato.
[diego
fusaro]