Max Weber and Karl Marx
Titolo originale
Max Weber und Karl Marx
Autore
Karl Lowith
Anno
1932
Editore
La terza (1994)

È stato detto che le due grandi linee interpretative da seguire, se si vuole capire l’epoca in cui viviamo, sono quelle tracciate da Karl Marx (1818-1883) e da Max Weber (1864-1920): pertanto, chi intenda venire a capo dell’Età moderna, non ha che da indossare le “lenti” interpretative di Marx o quelle di Weber , senza però pretendere di sovrapporle, perché esse si escludono a vicenda. Il punto comune da cui questi due grandi pensatori prendono le mosse nelle loro indagini è la constatazione che il nostro tempo è signoreggiato da una forza fatale – il capitalismo – che si è imposta con la stessa necessità con cui il destino dominava nelle tragedie greche: e, inscindibilmente connesso a questo problema, che costituisce il fulcro delle loro indagini, ve n’è un altro, quello del destino dell’uomo nel mondo contemporaneo. Proviamo ad addentrarci nella prospettiva di Weber, indossando, come dicevamo poco sopra, le sue lenti interpretative.
L’idea di Weber è che l’Occidente abbia avuto quello che egli chiama uno “sviluppo particolare”, diverso da quello di tutte le altre civiltà: a differenza di queste ultime, infatti, soltanto la civiltà occidentale è stata travolta da una razionalizzazione così radicale e onnipervasiva da investire tutti i sistemi di credenza, le strutture familiari, gli ordinamenti giuridici, politici ed economici, la scienza e addirittura le realizzazioni artistiche. Occidente è allora, nella prospettiva weberiana, sinonimo di razionalità: una razionalità che s’è potuta dispiegare, nota Weber, non malgrado il Cristianesimo, bensì in virtù di esso. Infatti, al cuore del messaggio cristiano non v’è forse quella convinzione dell’assoluta trascendenza del divino (posto nell’“alto dei Cieli”), rispetto al quale la realtà terrestre del nostro mondo è oggettiva, priva di significati magici e, dunque, manipolabile dalla volontà umana? Proprio grazie a questa dicotomia per la quale il divino sta in cielo e l’umano sta in terra, l’Occidente ha conosciuto il fenomeno di una crescente razionalizzazione giunta all’apice con le scienze, nella loro duplice forma di “scienze della natura”, le quali spiegano i fatti fisici, e “scienze dello spirito”, le quali comprendono le dinamiche della società. Una dicotomia che, in verità, può suscitare qualche perplessità non appena si consideri il ruolo tutt’altro che favorevole che, storicamente, ha svolto il Cristianesimo istituzionale nei confronti della scienza nell’Età moderna; una dicotomia che, del resto, può non convincere anche se si considera che, in fin dei conti, il tentativo di spiegare razionalmente il reale in ogni sua piega era già stato avviato, secoli prima, dalla filosofia greca. Ma la forza e la suggestione dell’analisi weberiana risiedono anche (forse soprattutto) nei dubbi e nelle perplessità che essa è in grado di suscitare.
La razionalizzazione che tutto travolge nel suo avanzare ha un risvolto pratico strepitoso: essa porta infatti a un vero e proprio “disincantamento del mondo”, tale per cui il mondo si va sempre più svuotando degli dèi e delle tante forze misteriose che lo popolavano in passato, dell’aura magica che lo avvolgeva, trasformandosi in semplice oggetto e teatro dell’agire umano. Tutto è ricondotto sotto l’egida della ragione, con la conseguenza che il mondo diventa sempre più “mondo dell’uomo” e del suo agire. Più precisamente, la crescente razionalizzazione fa sorgere il disincanto nella misura in cui ci permette di “dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale”, senza più essere succubi di quelle forze misteriose e trascendenti che ormai non hanno più cittadinanza in questo mondo. Ben si capisce, allora, perché per Weber, al giorno d’oggi, l’ateismo sia l’unico modo di pensare realmente onesto e disincantato È esattamente grazie all’impiego della tecnica e della scienza (le quali producono una sempre maggiore intellettualizzazione del mondo) che il disincanto trova il suo più fertile terreno di sviluppo, concretizzandosi in quell’“agire razionale rispetto allo scopo” sul quale Weber si sofferma diffusamente. Che il mondo si razionalizzi non significa, tuttavia, che in esso ciascun uomo sappia ogni cosa: su questo punto, Weber è chiarissimo. Sicuramente, sa molto di più l’indiano sulle frecce che usa per cacciare di quanto noi non sappiamo del tram su cui viaggiamo per andare al lavoro: la differenza fondamentale sta nel fatto che noi, a differenza dell’indiano, se volessimo, potremmo sapere tutto del tram, poiché nel nostro mondo “tutte le cose possono – in linea di principio – essere dominate dalla ragione”.
In quest’ottica, il capitalismo segna per l’appunto il trionfo della razionalità e, di conseguenza, del disincanto di un mondo ormai ridotto a teatro dell’agire umano in vista di ben determinati scopi. Il capitalismo non è che il trionfo della razionalità su ogni fronte, nella misura in cui esso si configura come un particolare tipo di società caratterizzata dalla ricerca razionale dei profitti, dall’organizzazione razionale del lavoro formalmente libero, dallo scambio di mercato razionale, da procedure razionali di contabilità, da sistemi politici e legali razionali.
Com’è noto, il capitalismo era agli occhi critici di Marx la quintessenza dell’ingiustizia, dell’alienazione e della reificazione umana e, proprio perché tale, doveva essere abbattuto in nome di una società diversa e più giusta. Invece, per Weber (e qui si capirà meglio che altrove perché le sue lenti interpretative non sono sovrapponibili a quelle marxiane) il capitalismo è l’inaggirabile esito del processo di razionalizzazione che ha coinvolto tutti i settori, caratterizzando il singolare sviluppo dell’Occidente. Se è vero che la razionalizzazione è il tratto essenziale della nostra civiltà, allora è anche vero che il capitalismo, che del processo razionalizzante è il punto culminante, è la “vocazione” dell’Occidente, una forza sopravvenuta in maniera fatale e, dunque, inevitabile.
Imprigionato in quella “gabbia d’acciaio” che è il capitalismo, l’uomo non deve, secondo Weber, illudersi di poterne forzare le sbarre per evadere (come fantasticava Marx): deve piuttosto cercare, senza illusioni e chimere, le chances di libertà all’interno di una gabbia le cui sbarre sono quelle di un destino inevitabile.
Sembra che la realtà storica abbia dato ragione a Weber, nella misura in cui ancora oggi (e forse più di ieri) il capitalismo sembra il destino tragico che domina l’Occidente e che anzi tende sempre più a inglobare ogni altra parte del mondo, come se la razionalizzazione avesse preso ad avviluppare anche le altre civiltà. Eppure siamo ancora in tanti, con Marx, a rifiutare di scendere a patti col mondo, convinti che non c’è destino che non possa essere rovesciato dall’uomo e dalla sua prassi diretta a un mondo migliore che non s’è ancora realizzato.
[diego fusaro]