I massacri,
le guerre, le torture: immagini come quelle di Abu Ghraib che
fanno ogni giorno il giro del mondo. Un filo di sgomento corre
spesso a ritroso dalle atrocità di cui siamo quotidianamente
spettatori sino al reticolato di Auschwitz, prima stazione obbligata
per chi voglia comprendere quanta barbarie può nascondersi
dietro la normalità della vita moderna. E si resta confusi
o indifferenti. Queste pagine nascono proprio dal bisogno di
fissare i contorni di una tale sensazione. Non indicano delle
risposte e, ancor meno, delle vie d’uscita. Si limitano
ad azzardare una serie di congetture e a descrivere le forme
che l’elaborazione di questo sconcerto ha assunto in tempi
peggiori dei nostri. Ma anche a riflettere su quella che può
sembrare una forma definitiva di ingenuità o di rassegnazione.
Perché, a più di cinquanta anni di distanza, ci
occupiamo ancora di Auschwitz? In una celebre lettera del 27
gennaio 1904, indirizzata a Oskar Pollak, scriveva Kafka:
"ma é bene se la coscienza riceve larghe ferite
perché in tal modo diventa più sensibile a ogni
morso. Bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono
e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno
sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici,
come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo
libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente
scriverli noi. Ma abbiamo bisogno di libri che agiscano su di
noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di
uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo
respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio,
un libro dev'essere la scure per il mare gelato dentro di noi".
Ed è
proprio per questa ragione – ossia per far ricevere grandi
ferite alla nostra coscienza - che, nonostante il tempo trascorso,
dobbiamo ancora occuparci di Auschwitz, ossia di un tema che,
affrontato, non può non ferire come un’ascia la
nostra coscienza, mordendola e facendola sanguinare dal profondo.
Molti autori hanno scritto nel Novecento opere intitolate
La condizione del nostro tempo: ma oggi quale è,
realmente, tale condizione? Che cos’è che meglio
caratterizza l’epoca che stiamo vivendo? Si può
certamente rispondere che il tratto caratterizzante dei giorni
nostri è la freddezza, il torpore, il ghiaccio: assistiamo
al proliferare di una curiosità perversa e morbosa, che
ci porta a voler sapere tutto di tutti (donde l’interminabile
stuolo di programmi televisivi che mettono a nudo la vita di
tutti), e al contempo viviamo in un’indifferenza paralizzante
verso ogni cosa, quasi come se quell’iperinformazione
non desiderata e a cui non ci possiamo sottrarre, venisse enigmaticamente
compensata da un’ignoranza ambita e anelata. Vige insomma
un insopportabile stato di distrazione o, per dirla con Pascal,
di divertissement, tale per cui chiunque cerchi di penetrare
quella insostenibile cortina di indifferenza viene zittito come
guastafeste, al pari del vecchio marinaio della famosa ballata
di Coleridge, che uccide senza ragione un albatro ed è
costretto a scontare per questo gesto la maledizione che si
abbatte sulla sua nave e, alla fine delle disavventure, morti
tutti i suoi compagni, è condannato a spostarsi incessantemente
di luogo in luogo per insegnare col suo esempio l'amore e il
rispetto per tutte le creature di Dio. Come il marinaio, che
narra a chi si dirige verso la festa il tragico episodio della
sua esistenza, la tragica perdita di tutti i suoi compagni,
rendendo tutti più tristi e più saggi, così
fa chiunque parli di cose sgradite a chi è immerso nell’indifferenza.
Al giorno d’oggi si verifica del resto un inquietante
avvenimento: scansiamo non solo i guastafeste che pretendono
di ferirci la coscienza raccontandoci le loro esperienze, ma
anche coloro che a noi si avvicinano per farci del bene e per
salvarci. Fino agli anni ’70 del Novecento aleggiava la
diffusa idea che, dietro alla "verità di comodo",
se ne nasconde un’altra (realmente vera), abilmente mascherata
con mille vernici: sicché, se a quei tempi il problema
che ci si poneva era "come faccio a sapere?",
oggi, in un’età in cui siamo sommersi dalle informazioni
(a cui non possiamo in alcun modo sfuggire), il problema da
porsi è un altro: "che farne di ciò che
sappiamo?". Ed è a tal proposito, dinanzi a
questo cumulo di sapere indistinto, che nascono il distacco,
il cinismo, l’indifferenza, il lanciare lo sguardo sul
mondo senza lasciarsi minimamente coinvolgere: chi guarda il
mondo senza farsi toccare da esso è come un Dio, diceva
Nietzsche riprendendo un topos stoico e, in tal modo, valorizzando
appieno quell’indifferenza contro la quale i Romantici
avevano speso le loro energie. Ma è possibile, al giorno
d’oggi, rompere quel refrattario strato di ghiaccio che
ci impedisce di sentire per davvero le cose e di farci coinvolgere
da esse? Oggi, nell’età in cui le grandi religioni
hanno rivelato la loro impotenza consustanziale, i grandi sogni
comunisti si sono risolti in terribili incubi, è ancora
possibile una saggezza, una sensibilità? Il sociologo
tedesco Beck sostiene, a tal proposito, che si devono "risolvere
per via biografica le difficoltà sistemiche":
con ciò egli intende dire che, dopo il fallimento delle
grandi organizzazioni (delle grandi chiese e dei grandi partiti),
grava sui singoli individui la risoluzione di quei problemi
rimasti insoluti. Per gli antichi Stoici, per gli Scettici,
per Nietzsche il distacco dal mondo e dalle sue vicissitudini
babeliche è una virtù dal cui adempimento dipende
la felicità: ma, al giorno d’oggi, possiamo ancora
essere felici perché siamo indifferenti? Non sentiamo,
piuttosto, il dovere di perforare il muro dell’indifferenza?
Adorno dice che Nietzsche fu un vero filosofo solamente in un’occasione:
quando, in preda alla follia, abbracciò a Torino il cavallo
frustato: ciò a significare che – secondo Adorno
– saremo davvero umani quando abbracceremo chi soffre,
spezzando il gelo del distacco. Ma – domandiamoci - che
cosa accade a chi si impegna a vincere l’indifferenza?
Riprendendo la bella immagine della ballata di Coleridge, chi
compisse un tale salto, si troverebbe immediatamente nella duplice
condizione di vecchio marinaio e di invitato alla festa, trovandosi
così ad oscillare tra una situazione in cui cerca di
sensibilizzare gli altri su ciò che a lui pare intollerabile
(e ciò può essere tanto la fame nel mondo quanto
la mancanza di parcheggi sotto casa) e una situazione in cui
viene ad essere sensibilizzato da altri "vecchi marinai"
su altrettanti problemi che probabilmente egli non avverte come
tali. Del resto, perché mai occuparsi del problema della
fame nel mondo anziché di quello del cancro o dei parcheggi
o dei treni perennemente in ritardo? Vige, in questo senso,
una forma di "idiotismo del bene", per cui ciascuno
parla una lingua che è comprensibile a lui soltanto:
manca, in altri termini, una 'kolvn' con cui capirsi, con cui
decidere che cosa realmente sia un problema.
[diego
fusaro]