Con il ballo sfrenato che l’irriverente Dioniso scatena sul palco, “Mount Olympus” invita ad abbandonarsi ad una viscerale follia. La stessa follia che coinvolge attori e spettatori nella decisione di seguire l’artista belga Jan Fabre, in questo nuovo grandioso, ambiziosissimo progetto: ventiquattro ore di performance, per dare gloria al culto della tragedia.
Se nell’antica Grecia le rappresentazioni teatrali si tenevano in giornate di festa dall’alba al tramonto, Mount Olympus va in scena dalle 19 del sabato fino alle 19 della domenica. Lo spettatore è libero di uscire e rientrare quando vuole, ma nel frattempo lo spettacolo prosegue, ammaliante e respingente allo stesso tempo, in un flusso ininterrotto: perché il flusso è vita, mentre l’interruzione è noiosa imitazione di morte. Il regista concede solamente tre brevi soste, che chiama “Dream Time”, durante le quali gli attori riposano sul palco, avvolgendosi in bianchi sacchi come sarcofagi. Chi si lascia catturare dal ritmo dilatato di questa cerimonia pagana, restando a teatro tutta la notte, entra in uno stato di trance, con la sensazione di partecipare ad un evento allucinatorio collettivo: mentre i fumi che calano dall’alto avvolgono il pubblico invitandolo ad arrendersi al sonno, le parole poetiche dei messaggeri descrivono il processo per cui il sogno si tramuta in ricordo e il racconto del sogno diventa a sua volta creazione immaginifica. In bilico fra sonno e veglia, lo spettatore assiste agli incubi penetranti e demoniaci che avvengono in scena e li amalgama con i propri sogni, dando così forma ad una nuova personale visione.
Come le interiora, gli organi, la carne cruda che più volte gli attori lanciano, raccolgono e dilaniano sul palco, così Fabre sviscera la tragedia greca e fa affiorare il nucleo profondo dei protagonisti, anche mettendo in primo piano il sangue e l’intimità che nel teatro antico rimanevano fuori dalla scena. L’ingresso dell’eroe mitico inizia con un gesto, un’azione ossessivamente ripetuta che prepara il successivo arrivo della parola: non dialoghi ma poche intense frasi reiterate, attraverso cui il personaggio si racconta nella lingua dell’attore che ne è interprete. Da Ecuba che piange sulle spoglie del nipote ucciso, fino ad Aiace che difende la verità dell’eroe macchiato di sangue contro il confortevole teatro dell’ipocrisia, passando per Edipo ed Ercole, Agamennone e Medea, nei capitoli dello spettacolo si articola un’interminabile catena di guerre e amori, dolori, maledizioni e violenze.
Fabre crea un’epopea della tragedia classica e la infiamma con lo spirito ancestrale, selvaggio e inebriato dei Misteri Dionisiaci. Mentre sullo sfondo le lanterne disegnano meravigliose ombre, i teli candidi che vestono gli attori in variegati panneggi si sporcano di sangue e di terra; di quadro in quadro la scena popolata di Furie, satiri e Baccanti, si impregna in una contaminazione sinestetica di vapori profumati, inserti di canto lirico, aliti vinosi, fumo di tabacco, odore d’olio o tanfo di viscere animali.
I 27 eccezionali interpreti (attori e danzatori di varia provenienza), sono dediti in maniera totalizzante ad una performance che li mette costantemente a dura prova. Nel teatro di Fabre il corpo è assoluto protagonista: qui, coperto e denudato, deterso come dopo un esercizio atletico, colorato, attraversato e accarezzato, si dispone in raffinate composizioni sceniche, gioca in metamorfosi animalesche o camuffamenti di genere, si lascia possedere dalle tribali convulsioni della danza o si sottopone a sforzi fisici estremi. Fra organi intimi che miagolano o ballano il sirtaki, degustazioni erotiche, orge arboree e gorgheggi orgasmici, la sessualità diffusa è interpretata con allusiva ironia ed autoironia, o lascia esplicitamente il posto ad un uso invasivo del corpo attoriale, ancora legato alle esperienze della body art.
Mount Olympus è il trionfo della carne, un magma onirico che alterna percezioni contrastanti, esaltando gli istinti dionisiaci e disturbando la razionalità apollinea fino a sfociare nel liberatorio, travolgente finale. Un’esperienza eccessiva, sfiancante, catartica.
Titolo | Mount Olympus – To glorify the cult of tragedy |
Autore | Jeroen Olyslaegers, Jan Fabre |
Regia | Jan Fabre |
Musiche | Dag Taeldeman |
Costumi | Jan Fabre, Kasia Mielczarek |
Coreografie | Jan Fabre e i danzatori |
Luci | Jan Fabre, Helmut Van den Meersschaut |
Interpreti | Lore Borreman, Katrien Bruyneel, Annabelle Chambon, Cédric Charron, Renée Copraij, Anny Czupper, Els Deceukelier, Barbara De Coninck, Piet Defrancq, Mélissa Guérin, Stella Höttler, Sven Jakir, Ivana Jozic, Marina Kaptijn, Gustav Koenigs, Sarah Lutz, Moreno Perna, Gilles Polet, Pietro Quadrino, Antony Rizzi, Matteo Sedda, Merel Severs, Kasper Vandenberghe, Lies Vandewege, Andrew Van Ostade, Marc Moon van Overmeir, Fabienne Vegt |
Durata | 1440' |
Produzione | Troubleyn/Jan Fabre |
Coproduzione | Berliner Festspiele/Foreign Affairs, Concertgebouw Brugge/December Dance, Julidans 2015 Amsterdam |
Anno | 2015 |
Genere | performance |
Applausi del pubblico | Fragorosi |
Compagnia | Troubleyn / Jan Fabre |
In scena | 17-18 ottobre 2015 al Teatro Argentina, Roma |
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