Attore, regista, drammaturgo e sceneggiatore. Roma e la Roma, il calcio, la musica e la poesia. Ironia, umorismo e drammaticità. In una parola Giuseppe Manfridi.
Un inizio di stagione piena di impegni per Lei a partire dal debutto nelle vesti di attore nello spettacolo Americani di David Mamet che ha aperto la stagione del Teatro Eliseo.
Una presenza silenziosa nel primo atto che prende corpo nel secondo. Ci vuole raccontare il suo personaggio e come è stato coinvolto dal regista Rubini?
Mi ha molto affascinato dover costruire il percorso di trasformazione da una posizione di resistenza iniziale, quale è quella del mio personaggio quando viene abbordato dal venditore che vuole fargli acquistare dei terreni (Riccardo Roma, interpretato da un bravissimo Francesco Montanari), al cedimento totale a cui approda, e doverlo costruire facendo uso solo dei silenzi e delle reazioni gestuali. I meccanismi di plagio psicologico sono sempre stati al centro del mio lavoro di drammaturgo, e in questo caso è come se avessi dovuto dare consistenza attorale a un tipo di pérformance che ho più volte illustrato a chi era chiamato a fare ruoli simili scritti da me. Nel secondo atto, poi, mi ha molto aiutato l’impostazione registica pensata da Sergio Rubini, che mi ha consentito di offrire quasi in Primo Piano il crollo psichico del mio personaggio, coinvolto in una vera e propria seduta analitica nel corso del colloquio con Roma, a cui, nei panni di Gianni Boni, sono costretto a dire che mia moglie vuole indietro i soldi versati come caparra per i terreni che l’altro mi ha convinto ad acquistare. Venivo via sempre stremato da questa scena. Breve, ma intensissima.
Nel mese di ottobre David Mamet è stato ospite del Festival del Cinema di Roma dove ha tenuto una lezione sul suo cinema e poi ospite del Teatro Eliseo per una lezione di teatro; che incontro è stato?
Eccellente. Mamet si è rivelato persona di grande cordialità, e assai simpatica. Mi ha sorpreso la leggerezza con cui è stato capace di confrontarsi con chiunque, in particolare coi più giovani. Ha saputo definire le caratteristiche della sua drammaturgia con grande chiarezza, e per me è stato un vero piacere poter fare la conoscenza diretta di un autore che ho sempre indagato con particolare curiosità. Un dono, questo, di cui sono grato a Luca Barbareschi.
Terminate le fatiche al Teatro Eliseo, si è dedicato ad una rilettura jazz del suo lavoro del 1990 Ti amo Maria. Come è nato questo progetto? Che rapporto ha con il jazz?
Ho desiderato recuperare il gusto di una vitalità underground che sento dispersa e che negli anni ‘70 ha fatto di Roma quasi un riferimento europeo. Perciò ho messo in gioco un mio testo che più di altri poteva prestarsi allo scopo, sottoponendolo a una curiosa reinvenzione. Ma direi che ‘rilettura’ è il termine esatto. Le modifiche ci sono state, ma non per correggere il copione a distanza di tempo. La commedia rimane quella che scrissi tanti anni fa per Carlo Delle Piane, non saprei cambiare una parola. L’ho piuttosto ridotta per farne, appunto, una versione jazz, dal momento che il protagonista è un pianista jazz colto in una fase di deriva della sua vita, e che perciò si ripresenta davanti a una donna con cui, dieci anni prima, ha avuto un flirt di qualche mese. Lei se lo ritrova sul pianerottolo di casa, e nell’arco di un’intera estate la donna (che è la Maria del titolo) sarà costretta a subire una vera persecuzione amorosa. Oggi parleremmo di stalking. Nulla dico del finale per preservare la struttura anche un po’ da thriller della vicenda. In questa mia proposta (è la prima volta che dirigo la commedia e che interpreto il ruolo dell’uomo, che si chiama Sandro) è stato prediletto, come dicevo, l’aspetto notturno e jazz, da cui l’utilizzo in scena di un sassofonista che assume la statura di un vero e proprio personaggio. Il jazz, per me, non è solo un genere di musica, ma rappresenta un modo di vivere, di pensare e di comportarsi, all’insegna della sollecitazione continua. Spesso addirittura della scorrettezza espressiva. Questo ho cercato di portare sulla scena, ma anche in platea. Mai avrei potuto farlo senza la piena complicità dei miei bravissimi compagni di avventura: Nelly Jensen, che ha saputo dare alla mia Maria un senso di verità bruciante, Marcello Micci, perfetto come Narratore, e Pierfrancesco Cacace, magnifico sassofonista. Le scene (‘moderne e fantascientifiche’ sono state definite) sono di Antonella Rebecchini.
Lo sport, il calcio è da sempre stata una sua passione (è nota la sua fede sportiva giallorossa) che è divenuta anche protagonista di alcuni suoi lavori a teatro (La riserva) come al cinema (Ultrà di Tognazzi da lei sceneggiato). Non è facile parlare di calcio attraverso le altre arti, mentre a Lei risulta assai facile. Impressione corretta?
Il calcio, come lo sport in generale, è nutrito di epica, e l’epica è l’alimento principe di tante storie, di tante narrazioni. Farne occasione di spettacolo mi risulta perciò facile. Certo, la passione che mi anima, al di là delle opportunità creative che mi offre, è in grado di sollecitare in me una carica di ispirazione ulteriore. A breve, tra l’altro, porterò in scena il sesto atto del mio progetto DIECIPARTITE, in cui sono accompagnato e accudito da Daniele Lo Monaco (per quanto riguarda la produzione) e da Stefano Sparapano (per la regia). Ma voglio citare anche il mio editore, Giovanni Spedicati, che con il marchio de La Mongolfiera traduce in libri tutte le tappe di questo percorso. Questo ultimo atto, che propongo a distanza di anni dal precedente, si intitola ‘Il gesto di Pedro’. Prende spunto da una partita del ’75 e racconta la parabola potente e romanzesca del calciatore Carlo Petrini. Ovvero, quella di un grande peccatore che è passato attraverso una grande redenzione, sino a divenire il punto di riferimento per tutti coloro che si auspicano un calcio rigenerato e pulito.
A Febbraio al Teatro Argentina avremo modo di assistere al suo spettacolo L’indecenza e la forma. Uno spettacolo legato fortemente ad un’altra delle sue passioni: la poesia. Ce ne può parlare?
Il testo ha una struttura poetica dal ritmo densissimo. E’ un viaggio vorticoso nelle zone più infernali della vita di Pasolini, e senza pudore entra soprattutto nella carni di quello che è stato il dato centrale della sua biografia: il rapporto con la madre. Nell’insieme è un testo polifonico, a molte voci, ma tutte affidate allo straordinario talento di Francesca Benedetti, per cui è stato a scritto. A dirigerlo sarà Marco Carniti.
A Marzo il teatro Conciatori ospiterà Intervista ai parenti delle vittime, di cui oltre ad esserne l’autore le cura la regia dirigendo la talentuosa Melania Fiore. Una riflessione sull’essere e apparire?
Sì, una definizione giusta. Il testo racconta di una donna che, preparandosi per una serata fuori, occhieggia un video su cui scorrono le immagini di lei stessa ripresa durante una lunga intervista in cui parla della sorella più piccola morta per overdose. Quel che ne viene è un’invettiva estrema contro di sé e contro la sorella, ma al contempo è pure una travolgente dichiarazione d’amore. Molto jazz, per restare in tema. Non per nulla il testo verrà accompagnato da un ‘secondo copione’, ossia dalla musica che per lo spettacolo sta scrivendo il Maestro Antonio Di Pofi. Con Melania abbiamo già portato in scena ‘La castellana’, e non dubito che saprà dare anche a Intervista una forza notevole.
La sua produzione drammaturgica è assai varia ed eterogenea. E’ possibile evidenziare in controluce un filo conduttore? Se sì quale?
L’ho detto rispondendo alla prima domanda: il filo rosso di tutto il mio lavoro è senz’altro l’analisi dei meccanismi di plagio e di persuasione reciproca, indagati a volte in chiave ironica e umoristica, a volte più drammatica. Anche attraverso molto scritti non dedicati al teatro ho insistito nel perlustrare questo tema.
Attore, regista, drammaturgo. Cosa diverte di più Giuseppe Manfridi?
Fare teatro, in ogni caso.
Nessun commento