Scrittore, regista, attore ha iniziato a fare teatro con Giancarlo Sepe, Gabriele Lavia, Antonio Calenda e cinema come assistente di Mario Monicelli. Regista di classici e contemporanei tra cui Pinter, Moravia, Cechov, Manfridi, Campanile e Molière, come autore teatrale scrive e dirige per Rocco Papaleo, Arturo Brachetti, Lucrezia Lante della Rovere, Marco Giallini, Massimo Wertmuller, Antonio Catania, Giorgio Tirabassi e Chiara Noschese.
Dirige due film, “Nottataccia” (1991) dalla sua commedia omonima, con Stefania Sandrelli, prodotto da Massimo Troisi e nel 1996 “Bruno aspetta in macchina” con Valerio Mastandrea e Antonello Fassari, scritto con Suso Cecchi d’Amico.
Nel 1997 fonda “La Casa dei Racconti”, compagnia di cui è drammaturgo, producendo da sé i suoi spettacoli tra i quali Risorgi, in scena al Teatro Piccolo Eliseo di Roma fino all’11 dicembre e poi al Teatro Tor Bella Monaca sempre a Roma dal 13 al 18 dicembre 2016.
Tra i tanti con cui ha collaborato nella sua attività teatrale e cinematografica, chi e per quale motivo l’ha maggiormente influenzato?
Gabriele Lavia senz’altro mi ha spinto a concentrarmi sul contenitore in quanto contenuto; Mario Monicelli è stato un esempio di feroce e indomito umorismo contro l’incomprensibilità del mondo.
Risorgi, storia di esclusi, emarginati, derelitti, di ombre che prendono luce riducendo i “normali” ad ombre. Ci racconta come nasce questo testo?
Dalla rabbia per una decadenza di Roma che appare inarrestabile. Ma credo anche che si tratti di qualcosa di fisiologico in tutte le grandi metropoli. Mi sono messo a lavorare su uno spunto che avevo, un protettore di storpi e mendicanti, e poi pian piano mi sono accorto che mi stavo ispirando a certi temi di Re Lear – il rapporto padri-figli, e il potere – ma anche di The Connection di Gelber, la vita lisergica, lo sballo, la fuga, la paura.
Uno spettacolo che rompe la famosa quarta parete e invade la platea. Una scelta estrema.
Quasi tutti i miei spettacoli “scendono di sotto”, non si accontentano del rapporto esistente nei teatri all’italiana. A volte siamo costretti a forzare un’architettura che insegue ben altri confronti, ma credo che il gioco valga la candela: la relazione tra platea e palcoscenico è a tutt’oggi insoddisfacente e bisogna non accontentarsene mai.
Una compagnia di magnifici giovani attori. Personaggi estremi ma verosimili, che non cadono mai nella macchietta. Da autore e regista è stato difficile sceglierli ed amalgamarli?
Il testo è stato scritto appositamente per quasi tutti gli interpreti che sono in scena. Di solito è la cosa che mi viene meglio. Attori che avevo avuto modo di conoscere, non solo per la loro arte ma in quanto persone con cui condividere un percorso. Gli attori che sono entrati nel cast quest’anno hanno fatto propria questa filosofia in modo brillante e generoso, dando vita a risultati sorprendenti. La voglia di costruire personaggi contraddittori come siamo tutti noi è stata la spinta. L’umano non può essere un modello solo quando è eroico e virtuoso; per chi racconta come me deve essere un modello anche nelle sue ignominie come anche nei suoi comportamenti contraddittori e perturbanti. I personaggi liberi in quanto soli, liberi di agire nel modo che gli è consentito, o all’interno dei recinti che si sono costruiti o dove sono caduti. Questa era il mio territorio d’indagine.
Il suo personaggio è sgradevole nella violenza e colpisce al cuore per i suoi tratti di dolcezza nella debolezza. Come è riuscito a costruire un personaggio così difficile e al tempo stesso indimenticabile?
Bella domanda. E chi lo sa. C’è qualcosa di me, di quanto mi fa paura, e c’è molto di tutto quello che mi lascia sbigottito nel mondo intorno. E’ la perdita di forma del mondo contemporaneo preconizzata con incredibile puntualità da Calvino trent’anni fa.
Dopo Roma che futuro avrà “Risorgi?”
Siamo in trattativa con alcune realtà adatte ad ospitarlo, credo e spero che questo spettacolo continui a porre le sue domande, in giro.
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