Difficile definire un film come The Road. E’ al contempo un romanzo di formazione, una storia di fantascienza, un racconto del terrore, un diario di viaggio.
Lo scenario è apocalittico. Il mondo così come lo conoscevamo, pieno di vita, umanità, colori, è stato spazzato via. Da cosa non si sa bene, possiamo solo intuirlo e fare svariate ipotesi. Non è questo l’importante. La terra sta morendo, giorno dopo giorno; il clima si fa sempre più freddo e grigio. Il passato è una serie di tacche sullo stipite di una porta; la felicità è bere una lattina di Coca-Cola per la prima volta. L’uomo ha perso ogni tratto di umanità. Il cannibalismo è la soluzione dei più alla mancanza di cibo. La stagione della caccia è aperta. L’essere umano è diviso tra buoni e cattivi, forti e deboli, cacciatori e prede. L’unica via di fuga è il suicidio.
‘La strada’ del titolo è quella fisica che due uomini, all’apparenza vagabondi, nella sostanza padre e figlio, intraprendono alla morte della moglie/madre in direzione sud e della costa in cerca di cibo e calore; in una parola vita. Ma è anche una strada metaforica, quella che un padre indica al figlio affinchè nonostante l’orrore che li circonda, non dimentichino mai chi sono, i buoni che portano il fuoco… in loro. Un viaggio fatto di immensi solitudini e brevi incontri in cui l’umanità entra ed esce dalle loro vite come fantasmi persi nella nebbia, come incubi da cui svegliarsi in fretta.
Tratto dal romanzo di Cormac McCarthy, l’autore di Non è un paese per vecchi, – ottima la sceneggiatura di John Penhall, già adattatore per L’amore fatale dal romanzo di Ian McEwan – The Road è un film cupo, angosciante, commuovente; un’analisi senza compromessi di persone che mostrano i loro lati peggiori e migliori. La wilderness americana perde i colori sgargianti dei western alla John Ford, per calarsi in un malsano grigiore, con una fotografia fortemente desautorata che si rianima solo nei flashback di un passato doloroso e lontano ad opera di Javier Aguirresarobe, già collaboratore di Pedro Almodovar (Parla con lei) e Alejandro Amenabar (The Others, Il mare dentro).
Il regista John Hilcoat, qui alla sua prima grande prova dopo l’interessante ma datato La proposta (2006), sceglie uno stile piano, basso, capace di esaltare lo scenario apocalittico da una parte, per mettersi al servizio dei due magnifici attori dall’altra; attraverso intensi primi piani e mezzi primi piani; senza rinunciare a momenti di tensione e suspense dove occorre; senza indugiare troppo sugli aspetti orrorifici del racconto. E’ il clima generale della narrazione a creare orrore e tensione, piuttosto che la violenza delle immagini stesse.
Un film che ha il suo punto di forza nell’interpretazione dei due protagonisti. Viggo Mortensen nel ruolo del padre ci dona un’interpretazione calibrata, un misto di rabbia e disperazione, speranza e coraggio a sottolineare la maturità di un attore in continua ricerca di nuove e riuscite sfide recitative (A History of Violence, Appaloosa) ben coadiuvato dal giovane Kodi Smit-McPhee un misto di speranza e rassegnazione che non scade mai nel melodramma.
Una pellicola che attraverso l’amore di un padre per il figlio racconta una storia di sopravvivenza con la delicatezza e la commozione che solo un grande autore come McCarthy ed il cinema sono capaci di trasmettere. Un accoppiata perfetta per un film che ti cambia…dentro.
Nessun commento