Anni lontano da casa a sterminare giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale per conto della Marina statunitense, Freddie Quell (Joaquin Phoenix) tornato civile fatica non poco a stare lontano dall’alcool e a seguire la retta via. Lavori saltuari e continue peregrinazioni non gli valgono finchè non giunge da fuggiasco sulla nave di Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), sedicente curatore, filosofo, psicoterapeuta a capo di una setta denominata la Causa. Freddie in principio vestirà i panni di una bizzarra cavia per gli esperimenti di controllo della personalità di Dodd, ma col passare del tempo il loro rapporto si rivelerà più complesso e intricato e farà luce sui meccanismi che ruotano intorno alla Causa e avvicinerà inaspettatamente le personalità dei due protagonisti.
In America, la realizzazione di questo film ha suscitato un notevole polverone polemico per colpa delle considerevoli affinità tra la Causa della finzione e la Scientology di Ron Hubbard, che tanti accoliti vanta nel mondo vip a stelle e strisce. In realtà, nell’ambientazione e nella realizzazione il film pare molto legato al precedente “Il petroliere” quasi a disegnare una sorta di dittico sulle origini dell’America: nello scegliere epoche storicamente cruciali (i pionieri di fine ‘800 lì, qui il Dopoguerra), il regista sembra voglia cercare i germi dei due mali che hanno segnato la più grande potenza mondiale: l’ossessione capitalistica della ricchezza e il proselitismo e bigottismo religioso. La grandezza e la difficoltà di entrambe le opere sta nel fatto che non si tratta di film a tesi, ma che si pretende che il tutto prenda forma dalla dialettica tra i personaggi.
Freddie Quell, con i suoi modi biechi e irrequieti e il suo mentore carismatico e gioviale altro non sono se non la più vivida trasposizione su celluloide dei personaggi di Flannery O’Connor, la scrittice che con toni eccessivi e iperbolici ha narrato meglio di chiunque altro la fede e l’affabulazione intorno ad essa nel secolo scorso, con i suoi caratteri marginali e spesso repellenti a predicare o cercare l’illuminazione nel sud degli Stati Uniti. Come in quasi tutti i film di Anderson, il rapporto tra i due strabordanti e fantastici protagonisti è pressochè privo d’amore, affetto o empatia, ma un tentativo di dominio dell’uno sull’altro attraverso ogni mezzo a disposizione per averne il controllo (fu così anche quando affrontò direttamente il tema dell’innamoramento in “Ubriaco d’amore”); Freddie come molti dei suoi predecessori è solo, ossessivo, aggressivo e cerca costantemente il contatto fisico con i suoi interlocutori, sia esso un tocco o una vera e propria colluttazione, come a voler disegnare un perenne stato di lotta ed è indubbio che in questa metafora tanto amara quanto originale Anderson riesca a parlare anche all’attualità.
In cotanta ricchezza di contenuti e sontuosità di messa in scena (la fotografia del pupillo di Coppola Malaimare, le musiche ossessive di Jonny Greenwood, la recitazione da fuoriclasse del cast, a partire da Amy Adams, che al contrario dei suoi colleghi gioca al risparmio e con la sola postura rigida e glaciale rende la moglie di Dodd indimenticabile) non tutto va però completamente per il verso giusto. Nelle due ore abbondanti di narrazione, l’ossessione tra Freddie e Dodd diviene anche quella di Anderson per loro, e come in passato pare quasi che mentre dirige sapientemente, si lasci trasportare dalla storia e non sia lui a tenerne le redini, lasciando parzialmente deluse le aspettative che tanta bellezza prometteva. Non ne esce nessun profondo graffio all’anima come in altre opere uscite quest’anno e sicuramente molto più essenziali nella veste artistica, mentre il discorso sulla setta si limita a ribadire che laddove regna l’incertezza, la paura, la debolezza, tanto più sarà facile che il primo delirio arruffato e improvvisato passi per illuminazione divina.
Ciò detto, resta il fatto che chiunque ami il grande schermo (grande davvero questa volta, col ritorno della pellicola a 70 millimetri, resa leggendaria dai film di Hitchcock negli anni ’60, in tutto il suo splendore) non potrà non perdonare i difetti di questo film ambizioso e straordinariamente magniloquente e, proprio come un adepto di qualche nuova religione, restare ancora una volta magicamente ammaliato dall’affabulazione cinematografica di Anderson.
Titolo italiano | The Master |
Titolo originale | id. |
Regia | Paul Thomas Anderson |
Sceneggiatura | Paul Thomas Anderson |
Fotografia | Mihai Malaimare Jr. |
Montaggio | Leslie Jones, Peter Mcnulty |
Scenografia | Jack Fisk, David Crank |
Costumi | Mark Bridges |
Musica | Jonny Greenwood |
Cast | Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Laura Dern |
Produzione | Ghoulardi Film Company, Annapurna Pictures |
Anno | 2011 |
Nazione | USA |
Genere | Drammatico |
Durata | 137' |
Distribuzione | Lucky Red |
Uscita | 03 Gennaio 2012 |
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