Il riscatto di un uomo passa attraverso il dolore. Il dolore nato da una perdita grande, enorme, non ancora metabolizzata, ma che ti fa sentire comunque vivo, che ti fa tirare fuori quella bestia rancorosa chiusa in gabbia dentro un corpo segnato dal tempo, che ti fa riscoprire “gli occhi di tigre”.
Questo il DNA dell’ultimo e definitivo capitolo, il sesto complessivo, dell’epopea dell’ultimo eroe americano, dell’incarnazione del sogno e della mitologia americana: la ricerca ed il raggiungimento della felicità.
Rocky Balboa idealmente si ricollega al primo e miglior capitolo della esalogia del boxer italo-americano, riprendendo proprio da quelle strade di Philadelphia da cui tutto partì nel lontano 1976.
Ripercorriamo e rivediamo con non poca nostalgia immagini e luoghi del primo capitolo, come il negozio di animali in cui incontrò per la prima volta la sua Adriana, la pista di pattinaggio in cui passarono il loro primo appuntamento, la scalinata del Philadelphia Museum od Art che fa da sfondo agli allenamenti dello Stallone Italiano.
Un viaggio nella memoria di uomo che abbandonato il ring, si dedica al suo ristorante (Adrian’s) in cui fanno sfoggio le foto delle sue imprese, i trofei conquistati ed in cui intrattiene gli ospiti con il racconto delle sue storie. Al contempo cerca di recuperare il rapporto con il figlio, che schiacciato dall’ombra ingombrante paterna cerca di crearsi una propria identità nonchè vita.
Sylvester Stallone per oltre un’ora costruisce un mosaico di relazioni umane sofferte e dolorose, puntando la sua agile macchina da presa, in gran parte a mano senza complicati carrelli e dolly, sulla dimensione personale, affettiva dei personaggi, scavandoli e mostrandoceli nella loro umanità attraverso la semplice reciproca interazione. Per oltre un’ora Stallone è capace di parlarci della boxe senza mostrarcene una sola scena, ma trattando temi a lei connessa come il dolore, l’onore, la sofferenza, lo spirito di rivalsa, il rispetto verso se stessi e l’avversario, l’umiltà di gesti e comportamenti. Il tutto accompagnato dalle evocative note musicali di Bill Conti, che rilegge in chiave blues al pianoforte i principali temi musicali della saga.
Ma allo scoccare del 75esimo minuto, il compositore scatena le fanfare dell’inossidabile Gonna Fly Now, ed il vecchio leone ricomincia a ruggire.
Chi temesse di aver a che fare con l’eroe senza macchia e senza paura, icona di un certo “imperialismo americano” come in effetti lo fu in piena epoca reaganiana, può tranquillizzarsi. Il viale del tramonto è stato inesorabilmente imboccato, con tutto il suo bagaglio di errori e sconfitte che Stallone dal piano personale è riuscito a trasportare sullo schermo. E per Rambo si prevede analoga sorte.
Rocky Balboa è un film equilibrato, venato di una malinconia emotiva, condito da una leggerezza di scrittura in cui Stallone riesce addirittura ad ironizzare su se stesso – “Ti spiezzo in due” dice ad un certo punto al figlio che scherzosamente lo sfidava ad incrociare i pugni -. L’unico elemento debole del film è il rapporto padre-figlio sviluppato in maniera meccanica, prevedibile e risolto un po’ troppo frettolosamente. Ma francamente non possiamo chiedere di più.
Titolo originale | id. |
Regia | Sylvester Stallone |
Sceneggiatura | Sylvester Stallone |
Fotografia | Clark Mathis |
Montaggio | Sean Albertson |
Scenografia | Franco-Giacomo Carbone |
Costumi | Gretchen Patch |
Musica | Bill Conti |
Cast | Sylvester Stallone, Burt Young, Antonio Tarver, Geraldine Hughes, Milo Ventimiglia, Tony Burton, A.J. Benza, James Francis Kelly III |
Produzione | Chartoff/Winkler |
Anno | 2006 |
Nazione | USA |
Genere | Drammatico |
Durata | 102' |
Distribuzione | 20th Century Fox |
Uscita | 12 Gennaio 2007 |
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