Il primo pensiero è: farei esattamente come la protagonista. Anzi sono, mi sento la protagonista quando affigge i tre cartelloni che illustrano la violenza non punita subita dalla figlia. Sono come lei, cammino come lei, ho la stessa tuta, lo stesso sguardo buio, tagliente, duro, sarcastico.
Il secondo pensiero è: mi sento come lo sceriffo. Ironico, profondo, giusto, impotente contro l’orrore, felice della mia famiglia, moribondo.
Terzo pensiero: provo la stessa confusione del figlio della protagonista. Come faccio ad andare avanti, ad immaginarmi un futuro con una sorella stuprata, un padre che fugge con una diciannovenne, una madre vendicatrice folle senza sorriso, e come lui cerco di mantenere un equilibrio in una selva di emozioni contrapposte. Soffro in silenzio, come soffre lui.
Quarto pensiero: come non essere vicino se non dentro al poliziotto razzista, un po’ stupido, mammone, disprezzato, violento, fragile e quindi umanissimo, anche lui capace alla fine di lottare, di immolarsi spinto da un oscuro, imprescindibile senso di giustizia?
E infine come non immedesimarsi anche nel nano, in giacca e cravatta al ristorante, umiliato ma fiero e pieno di dignità nonostante sia un reietto ubriacone.
Finisce “Tre manifesti a Ebbing, Missouri“. I pensieri e le emozioni svaniscono e rimane un’unica considerazione sul motivo della grandezza del film: non caratteri scolpiti con l’accetta ma personaggio modellati con la cera della vita.
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