Nomadland

“Mamma dice che tu sei una senzatetto, è vero? – No non sono una senzatetto, ma senzacasa è diverso…”

Si è diverso perché i senzacasa, come nel caso di Fern in Nomadland, negli Stati Uniti sono Nomadi che vivono in camper, case mobili, furgoni adibiti a vere unità abitative alternative. Per Fern non è una scelta di vita – ha perso il marito, il lavoro e la casa a causa della crisi economica che investì gli Stati Uniti nel 2006 – ma un’adattamento a situazioni avverse, affrontate con pazienza, dignità e spirito “americano”; quello stesso spirito che animava i cowboys della seconda metà del’Ottocento quando iniziarono a popolare il selvaggio west.

E Nomadland può anche essere visto come un western post-modern, dove le carovane di nomadi si spostano in funzione del lavoro e delle necessità di base, recidendo le radici che il benessere a fatto loro piantare, per ritrovare quello spirito selvaggio che li caratterizza da sempre.

La pellicola, vincitrice a Venezia del Leone d’Oro e fresco premiato alla notte degli Oscar come Miglior Film, Regia e Attrice Protagonista, è tratto dall’omonimo libro-inchiesta di Jessica Bruder (edizioni Clichy), ed è un film di finzione intriso ferocemente di realtà (molti degli attori in campo sono veri nomadi americani), che poggia su atmosfere rarefatte (a cui le musiche di Ludovico Einaudi danno corpo e volume), silenzi assordanti e interpretazioni intense dove il non detto, l’inespresso, le micro-espressioni facciali dei protagonisti raccontano un vissuto che se espresso a parole avrebbe reso il tutto troppo retorico e pleonastico.

Un film che può piacere o meno, ma che non può lasciare indifferenti, non può lasciare dentro una infinita e straziante mestizia.