Da dove è partita l’idea di questo documentario (Born Into Brothels), come l’ha sviluppata e come è riuscita a “nascondersi” così bene dietro la cinepresa?
La prima volta che sono partita per l’India è stato nel 1995, senza una vera ragione, sentivo semplicemente che dovevo recarmi lì. Vi tornai dopo due anni e ce ne vollero altri due per essere accettata dalle donne del quartiere a luci rosse in cui ho cominciato a vivere. Fui subito attratta dall’immediato rapporto che si era instaurato con i loro figli, fu allora che decisi di insegnare loro la fotografia. Ho usato la macchina fotografica per comunicare con i bambini e, allo stesso tempo, per conoscere attraverso i loro occhi il mondo che mi circondava.
Com’è nata la sua collaborazione con Ross Kauffman?
All’epoca era semplicemente il mio fidanzato! Mentre ero in India gli avevo chiesto più volte di raggiungermi per girare il film, ma continuava a rifiutarsi di farlo. Allora ho deciso di fare alcune riprese e spedirgliele. Dopo averle viste ha finalmente accettato la mia proposta!
Come è riuscita a inserirsi nella vita difficile come quella di un bordello? E come si svolgeva la vita quotidiana?
La vita quotidiana nel quartiere a luci rosse era molto dura, sia dal punto di vista emotivo che da quello fisico, ma era una vita molto “reale”. Mi è stato difficile tornare alla vita della classe media che, dopo l’esperienza in India, mi è sembrata piuttosto falsa. Per me è stato un onore essere accettata e accolta all’interno del bordello, è una cosa che non dimenticherò mai soprattutto perché io potevo andare via in qualsiasi momento, mentre loro erano costretti a vivere lì. È per questo motivo che, ogni qual volta che mi chiedevano aiuto, facevo di tutto per offrirglielo.
Quali sono oggi i tuoi rapporti con i bambini? Cosa fanno adesso?
Il film è solo un’istantanea, un attimo di tempo che è parte del progetto in cui siamo tuttora coinvolti. Siamo in costante contatto con i bambini del film. Avijit, ad esempio, vive negli Stati Uniti e ha appena completato un corso di cinema al Sundance Insitute. Molti dei ragazzi continuano a studiare, altri hanno deciso di tornare a casa. Noi li sosteniamo in ogni loro scelta, qualsiasi essa sia, anche perché non è detto che l’istruzione sia la cosa migliore per ognuno di loro.
Qual è il suo prossimo progetto?
Sono tornata a fare fotografie, sto curando un progetto sugli insetti, in particolare sulla mantide religiosa! Inoltre sto iniziando un nuovo film sul commercio illegale di animali selvatici.
L’immagine occidentale dell’India corrisponde a quella di un Paese povero, ma molto affascinante. Come vedono in India noi occidentali?
Gli indiani sono molto felici di avere a che fare con gente di una cultura differente dallo loro, è un popolo molto curioso. Durante la mia permanenza erano i bambini a essere più interessati a com’è la vita fuori dall’India, erano loro che mi facevano molte domande, questo perché sono abituati a vedere in televisione ciò che succede nel mondo. Mi hanno chiesto perfino dell’undici settembre, di quello che è successo al World Trade Center. Per gli adulti, invece, il mondo occidentale è una cosa talmente distante che non ne sono affatto incuriositi.
Crede che sia possibile per questi bambini accettare la pratica dell’affido?
I ragazzini che vivono nel bordello ce l’hanno una mamma, una famiglia, a cui sono anche molto legati. Io non sono andata lì con lo scopo di salvarli, ma con quello di conoscerli, di ascoltarli e di soddisfare il più possibile le loro richieste, e i loro desideri.
Come è riuscita a comunicare con loro così bene?
Mi sono valsa dell’aiuto di alcuni interpreti, anche non professionisti, chiunque fosse disposto ad accompagnarmi nel bordello.
Continua a esistere la vostra associazione?
Kids With Camera è un Organizzazione senza scopo di lucro che avevamo creato per consentire ai bambini del film di andare a scuola. Successivamente il progetto si è ampliato grazie all’entusiasmo seguito al film e adesso cerchiamo di sostenere qualsiasi attività che si propone di aiutare i bambini disagiati nel mondo.
In Born Into Brothels sembra che chi guarda abbia l’impressione di avere uno sguardo troppo estraneo e l’esigenza di “passare la parola” a chi è osservato…
Quando scatto fotografie non mi sento mai un’osservatrice, riesco a coinvolgermi molto facilmente nella situazione in cui sono, mi sento subito parte di essa e questo i bambini lo hanno avvertito. Mettendo nelle loro mani la macchina fotografica ho semplicemente voluto rappresentare anche il loro punto di vista.
Dal film sembra che le istituzioni indiane siano piuttosto indifferenti ai problemi dei bambini, le cose sono cambiate dopo la sua premiazione agli Oscar?
L’atteggiamento delle istituzioni è leggermente cambiato dopo l’Oscar a Born Into Brothels, ma non molto.
Purtroppo in India c’è un grosso pregiudizio nei loro confronti, essere figli di una prostituta significa non solo essere povero, ma anche avere a che fare con situazioni poco igieniche, promiscue, inoltre questi bambini usano un linguaggio piuttosto volgare rispetto ai bambini della loro età. Per questi motivi è molto difficile riuscire a collocarli nelle scuole, perché la tendenza è quella di rifiutarli, più che aiutarli.
Comunque nel film non ho insistito su questo punto perché il mio scopo non era quello di fare un documentario sulle istituzioni di Calcutta, ma sui bambini.
[dichiarazioni raccolte da federica scarnati per ilgrido.org]
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