Il Regno

Un thriller dove non si uccide con pistole, armi bianche, o pozioni velenose; dove l’assassinato non è un uomo né una donna, un capo di stato o un uomo qualunque finito nel posto sbagliato al momento sbagliato; dove l’assassino non è uno psicopatico evaso da una prigione di massima sicurezza, né un violento serial killer, tanto meno un terrorista estremista di qualche paese lontano.

Un thriller dove si uccide con la menzogna, l’inganno e la corruzione; dove viene uccisa la correttezza, l’onestà, l’integrità; dove chi uccide è un cancro che colpisce, abbatte e corrode ogni ganglo vitale di una società in tutte le sue declinazioni: politica, sociale, industriale.

Questo è Il Regno l’ultima pellicola di Rodrigo Sorogoyen regista emergente del nuovo cinema spagnolo, ambientato nella penisola iberica, ma verosimilmente traslabile in Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Russia; perché fuori dai luoghi comuni, ogni mondo è paese.

Sorogoyen mette in scena questo suo thriller senza aver pietà di alcuno dei suoi personaggi, senza eroi e villain con cui costruire una facile empatia, con una freddezza lucida, chirurgica, volutamente distaccata, ed una messa in scena documentaristica, con macchina a spalla in continuo movimento, sincopatamente nei momenti di maggior tensione, impercettibilmente in quelli di apparente stasi.
Lo spettatore assiste basito ed impotente agli eventi che il regista incasella senza perdersi in troppe spiegazione, perché la cosa a cui tiene maggiormente non è il dettaglio ma bensì l’insieme della rappresentazione, cogliendo il bersaglio pienamente e spiazzando le aspettative con un finale tronco che, come l’opera aperta di Umberto Eco, lascia allo spettatore modo e tempo di riempire.