Com’è possibile che un film doppiato non si possa più vedere senza che tutto suoni falso e meccanico, peggio di una fiction televisiva su Rai 1?
Il primo motivo è darwiniano. Nelle sale di doppiaggio non esiste più la selezione naturale. È un mondo chiuso che si autoalimenta, dove la volontà di emergere si riscontra solo nel protestare per le paghe basse. Per accedervi si guarda il pedigree familiare e non il talento e la capacità.
Il secondo motivo (che deriva direttamente dal primo), è strettamente tecnico. Se, ad esempio, in un action movie un foreign fighters minaccia di tagliarti la gola, è inutile pronunciare «dopo» con la o chiusa; se in una commedia americana una badante legge i “Promessi Sposi” al vecchio italo americano di cui si vuole impadronire dell’eredità, non è fondamentale che «Lecco» venga pronunciata con la e aperta; oppure se in un film di inchiesta a Medellin il nipote di Escobar parlando con i suoi chiama una partita di coca «zucchero» non è obbligatorio pronunciarlo con la z sorda, per sentire la corretta pronuncia dell’italiano. Per doppiare non basta aver fatto un corso di dizione.
Terzo motivo, la direzione del doppiaggio. Hanno tutti la voce calda vellutata, profonda, suadente, sexy e sono tutti attenti a pronunciare chiare le ultime sillabe delle parole. Stereotipi che rendono le realtà descritte dai film fuori contesto se non ridicole. Non c’è disegno, non c’è intenzione, non c’è interpretazione della storia. Non c’è regia per l’appunto. E il risultato è che un film di gangster, una commedia o un film di autore hanno sempre la stessa nota di fondo. Piatta.
È per tutta questa serie di motivi che del film pluripremiato in Spagna “La vita è facile ad occhi chiusi” di David Trueba, un esile road movie ambientato nella Spagna franchista, non si riesce a comprendere se l’ingenuità e la semplicità della storia che quasi sconfina in banalità espressiva, sia dovuto al regista o a un doppiaggio sciatto e superficiale. Magari si trattava di un’operina raffinata e sottile. Non lo sapremo mai.
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