«Trova una storia che ti appassioni, mantieni la calma con i tassisti, esci per strada e fotografa, non forzare le situazioni ma tienti pronto a coglierle quando si verificano». E soprattutto: «Per fare buone foto, devi stare dentro l’acqua». Il fotografo Steve McCurry non ha paura di calarsi nelle realtà che racconta, di entrarci dentro: per ritrarla da vicino, per guardare faccia a faccia i protagonisti. Il suo è un mestiere fatto innanzitutto di costanza: costruire un rapporto di fiducia con i collaboratori e le popolazioni locali, tornare più volte nello stesso luogo finché non si trova la luce migliore, saper attendere il momento giusto, l’occasione per ottenere lo scatto perfetto.
Inizialmente studioso di cinema, lo statunitense McCurry è viaggiatore prima ancora che fotografo: appassionato di viaggi, decide di farne la propria professione e trova nella fotografia la via giusta per poter realizzare questo desiderio. Fino a diventare, oggi sessantacinquenne, uno dei fotoreporter più noti ed apprezzati del National Geographic, testimone diretto di grandi eventi della storia mondiale, dalla Guerra del Golfo all’11 settembre. I risultati più incisivi, tuttavia, non li raggiunge quando racconta le vicende storiche nei loro aspetti più eclatanti, in campo lungo, quando fotografa le torri gemelle fumanti o i disastri del terremoto in Giappone; il talento di McCurry è nei primi piani, nei ritratti singoli o nei piccoli gruppi di persone: è attraverso i loro sguardi penetranti che si esprimono la tragedia o la gioia, la saggezza e la malinconia.
È così che il fotoreporter riesce a documentare pezzi di storia e di vita, prima che scompaiano. L’indiano che nell’esondazione monsonica ha perso tutto ma sorride, mentre è immerso nell’acqua e cerca di portare in salvo la sua macchina da cucire; i solchi profondi di rughe sul volto del monaco tibetano; i dipinti sulla pelle degli abitanti della Valle dell’Omo; i bambini palestinesi che giocano con un cannone. Oppure i grandi occhi verdi, tristi e spaventati, della piccola profuga afghana: fotografia scattata del 1984 e divenuta icona celeberrima.
Ed è soprattutto sul gioco di sguardi che si costruisce la mostra curata da Peter Bottazzi “Steve McCurry: Oltre lo sguardo“, in un allestimento di suggestione emotiva e scenografica. All’interno di un’unica sala di un teatro di posa di Cinecittà, immerse nel buio, le fotografie sono appese su grandi teli neri, morbidi e semitrasparenti. Non ci sono pannelli esplicativi né un percorso definito: tutto è affidato ai suggerimenti dell’audioguida con i ricordi in prima persona dell’autore, alle sintetiche “massime” di McCurry nei video disposti ai lati, e soprattutto al libero movimento del visitatore. I protagonisti degli scatti guardano dritto in camera e chi insegue i loro sguardi da osservatore, diviene osservato. Le fotografie non sono accostate per tema, luogo o data, ma sono connesse da assonanze sottili: un’espressione, un’intonazione cromatica, un richiamo compositivo. Ricorrono i personaggi che ci guardano attraverso superfici opache e vetri infangati, metafora di un diaframma che ci separa inevitabilmente dalla loro condizione. La mendicante indiana che bussa al finestrino dell’automobile, il soldato che si affaccia da una fessura nel muro di Berlino.
Nella penombra della sala si esaltano i colori saturi e brillanti delle fotografie: l’arancione della frutta esposta in vendita sul cofano di un’automobile distrutta, il rosso dei veli di donne nella tempesta di sabbia, la barba tinta di henné di un nomade mago, i sorprendenti occhi cerulei sotto i turbanti variopinti, gli abiti rosa delle monache che procedono in fila sotto la pioggia. Le fotografie di McCurry si compongono di ripetizioni e variazioni, corrispondenze e contrasti: la disposizione dei monaci cambogiani e le guglie del tempio alle loro spalle, la camicetta maculata di una donna addormentata e la pelle di un serpente che striscia sul pavimento, i costumi tradizionali delle giovani etiopi e il manichino occidentale dietro di loro. La vecchia locomotiva a vapore e il candore del Taj Mahal, le cornici create da porte e finestre per un effetto di quadro nel quadro, o la geometria dei trespoli in mezzo al mare su cui si arrampicano i pescatori in Sri Lanka. A Roma, invece, ciò che colpisce McCurry non sono le persone ma le statue, i calchi, i frammenti di scultura, che finiscono bizzarramente accostati a un pallone da calcio o ad una madonnina in gesso. Attraversando la mostra, il visitatore percorre mille luoghi, creando un personale itinerario all’interno di un labirinto di relazioni ipoteticamente infinito. Come sostiene McCurry, spesso il viaggio è ancora più interessante della meta.
STEVE McCURRY – Oltre lo sguardo a cura di Biba Giacchetti e Peter Bottazzi – dal 18 aprile al 20 settembre 2015 – Cinecittà si Mostra – via Tuscolana, 1055 Roma
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