Non ci sono ombre in Matisse, nessun impianto prospettico tradizionale. Le finestre non rimandano ad uno spazio esterno reale: non ci sono un dentro e un fuori. Il cielo non è cielo e il giardino non è giardino: è piuttosto un lembo di stoffa, una tappezzeria decorata. Lo si può notare in “Ramo di pruno, fondo verde” (1948), ma già in “Calle, iris e mimosa” (1913), il dipinto con cui si apre la mostra “Matisse. Arabesque“. Tutto è sullo stesso piano, perché accomunato da una medesima atmosfera. La natura è il punto di partenza, eppure tutto si svolge sulla superficie bidimensionale del quadro: un intarsio di linee sinuose e campiture dai colori accesi. Un arabesco, appunto, proprio come nel titolo della mostra curata da Ester Coen alle Scuderie del Quirinale.
Quella di Henri Matisse è una modernità che trae ispirazione dalle arti arcaiche e primitive; negli anni ’10 il pittore si interessa alla scultura africana, trovandosi in sintonia con le ricerche cubiste; è il periodo di «cosmogonia artistica» con fame di scoperte, per arrivare a scoprire progressivamente la propria arte, inventando un segno personale e giungendo alla conquista della semplicità massima. Dice Matisse: «Da sempre, ci è voluto coraggio per essere semplici».
Il pittore francese colleziona artigianato esotico, viaggia in Algeria, Spagna, Marocco. Se dalle stuoie africane o dagli scudi australiani trae motivi decorativi stilizzati, toni bruni e forme squadrate, nelle stampe giapponesi coglie un colore espressivo, «emotivo». Per Matisse, il colore non è descrittivo, o realistico. Sul volto del “Rifano in piedi” (1912) le pennellate sono arancio, rosse, verdi; dipingendo Katia, il giallo dell’abito straripa fino a tingere anche il viso della donna (1951). E poi c’è la grazia elegante della linea, il tratto sottile dell’inchiostro che percorre i disegni: i nudi femminili, i ritratti di donna, per giungere agli studi di alberi degli anni ’40 e ’50, in cui i rami e le foglie tendono a divenire moduli compositivi astratti. Un documentario di Francois Campaux, datato 1946, mostra la tecnica dell’artista intento a disegnare: rivela un Matisse attento e concentrato, che cancella, corregge, ridipinge, lavorando per stadi successivi, calibrando ogni singolo gesto pittorico.
La peculiarità della mostra risiede nell’elevare, non a torto, al ruolo di co-protagonisti le arti applicate, l’artigianato, l’etnografia attraverso il rimando evocativo fra il cromatismo “fauve” di Matisse e lo splendore di un kimono ricamato, i colori brillanti delle maioliche turche e persiane, una tenda marocchina, il tripudio carminio di un suzani uzbeko. Accanto ad una maschera ivoriana o ad un abito cinese, i costumi ideati da Matisse per il balletto “Le Chant du rossignol” di Stravinskij sfoderano una forza arcaica di straordinario effetto scenografico. Il percorso, non cronologico, procede per suggestioni e accostamenti. L’apparato esplicativo, molto scarno, si affida esclusivamente alle dichiarazioni dell’artista; l’allestimento su pannelli bianchi, che può apparire inizialmente anonimo e impersonale per un personaggio vitale come Matisse, risulta efficace nell’esaltare la potenza dei colori e delle forme. Si esce dalla mostra con lo sguardo ancora inebriato di meraviglia, di verdi e di azzurri.
“Matisse. Arabesque” alle Scuderie del Quirinale (Roma) dal 5 marzo al 21 giugno 2015
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