Un’immensa ondata d’acqua ha sommerso ogni cosa. Ha invaso le sale di un museo, gli altari di una chiesa e ha travolto i simboli della società moderna e del consumismo: dalla moda alla tecnologia, dalla finanza ai mezzi di comunicazione. Un mondo crollato, in rovina; dipinti e sculture si riflettono nello specchio distorto dell’acqua, uomini e donne galleggiano nel liquido lattiginoso o si aggrappano nudi ad un lampione, come sulla zattera dipinta da Géricault. È questo l’apocalittico scenario che il fotografo David LaChapelle immagina nel 2006, dopo aver visitato la Cappella Sistina, per la serie intitolata “The Deluge”: uno spartiacque nella vita dell’artista, che decide di trasferirsi su un’isola del Pacifico e anche nella sua opera.
Se prima nelle foto di moda o nei ritratti di celebrità, la sensualità era più ostentata, la metafora meno sottile e più didascalica (sebbene già intrisa di senso di devastazione e disfacimento), le opere realizzate “dopo il Diluvio” mostrano un LaChapelle sorprendente, che mette da parte la centralità della figura umana per esplorare nuove direzioni: negativi di banconote, carcasse d’auto, nature morte floreali impacchettate o contornate da flebo, bibite e sigarette. Nell’inquietante serie “Still Life”, l’artista americano fotografa le riproduzioni in cera di personaggi famosi della politica e dello spettacolo, che in seguito ad un atto vandalico risultano squartate, orribilmente amputate: ecco Cameron Diaz mutilata e George W. Bush ridotto in frantumi. Oppure fa realizzare artigianalmente, usando materiali di riciclo come bigodini e lattine, modelli in scala di pompe di benzina e di avveniristiche centrali nucleari, che fotografa collocandoli nel deserto o nella foresta pluviale.
La fase preparatoria e l’allestimento dei set hanno tempi e complessità di portata cinematografica, come documentano i video di backstage che completano la mostra curata da Gianni Mercurio. L’apparato informativo dei cartelli ben introduce il filo dei riferimenti diretti e indiretti alla storia dell’arte, di cui la fotografia di LaChapelle è densa: dal barocco al surrealismo, dalla pop art di Warhol al realismo di Hopper. E ancora: l’iconografia sacra, l’immaginario fantasy e l’iperrealismo, l’aeropittura futurista, Turner e Rembrandt, fino alle sculture di Jeff Koons e alle installazioni di Damien Hirst che si distinguono chiaramente nell’opera “Seismic Shift”.
Sempre in bilico fra spiritualità e blasfemia, fra kitsch ed estetismo, quella di David LaChapelle è un’arte provocatoria, di forte impatto: nelle sale bianche del Palazzo delle Esposizioni, le grandi allegorie non lasciano indifferenti. Gli apostoli di oggi sono giovani rapper di strada; nella Pietà, al posto di Gesù, troviamo Michael Jackson, o Kurt Cobain in braccio a Courtney Love. La natura è lussureggiante e misteriosa, i corpi sembrano di plastica, i colori di caramella e neon, i cieli zuccherosi perfino quando sono solcati da aerei in fumo. Un mondo dalla superficie luccicante, perfetto soltanto in apparenza, da cui l’artista è irrimediabilmente attratto, pur dichiarandone al tempo stesso la finzione, la malattia e l’irrimediabile dissoluzione: una vanitas vanitatum della contemporaneità.
David LaChapelle. Dopo il Diluvio – dal 30 aprile al 13 settembre 2015 – Palazzo delle Esposizioni, Roma
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