“Il ricatto” è un thriller catalano. Bei titoli di testa, un buon inizio: un pianista è chiamato a fare un concerto dopo cinque anni dal suo ritiro dalle scene.
La sala si riempie piano piano, lui è molto teso, entra in scena, gli sudano le mani e poco dopo comincia il concerto. A un certo punto sullo spartito appare una scritta minacciosa e attraverso un auricolare il pianista viene minacciato e ricattato in diretta. Da qui in avanti si assiste al crollo verticale della tensione.
E non per la storia di per sé ai limiti della credibilità, ma per quello che ormai è il più grande problema del cinema non italiano: il doppiaggio. La voce dell’assassino è comme il faut: flautata, profonda, impostata, pause giuste da rimorchione, crescendo modulato.
In una parola falsa. In due parole: falsa e ridicola.
La tensione si ammoscia, il giallo diventa farsa involontaria e addio al film. La casta dei doppiatori italiani – presuntuosi e spocchiosi -, è incapace di auto giudicarsi.
Non c’è mestiere, non c’è tecnica, non c’è capacità: è evidente che la selezione delle voci viene fatta in base al nome di famiglia, o per qualunque fattore che non sia il talento. Il risultato è la diacronia che si sviluppa nel rapporto tra immagine e dialogo. I blockbuster doppiati trasformano la straripante fantasia artigianale dei plot in storie incredibili nel senso letterale del termine: non credibili; i film d’autore diventano stranianti esercizi di cinema surreale.
Ormai vedere i film in lingua originale con sottotitoli non è più il vezzo dell’intellettuale, ma la necessità vitale di qualsiasi spettatore.
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