La versione di Barney

Torna il cavallo di battaglia di Antonio Salines: La versione di Barney. Tratto dall’omonimo romanzo di Mordecai Richler nell’adattamento di Massimo Vincenzi, Salines indossa i panni di Barney Panofsky, produttore televisivo di successo, ricco ebreo canadese figlio di un poliziotto che, superati i sessant’anni, decide – poco «per voglia» molto «per dover ristabilire una verità che potrebbe essere oscurata» – di scrivere un’autobiografia.
Un resoconto della propria vita che partendo dai ricordi di gioventù raggiunge il cuore nel momento in cui si trova a difendersi dalle accuse di aver causato la morte del suo amico “Boogie”.

Sul palco la «versione della propria vita» è resa mediante un monologo del protagonista, seduto al buio in un ambiente familiare, costruito attraverso pochi oggetti (una poltrona ed un attaccapanni) e luci espressive, che tagliano l’oscurità del palcoscenico come lampi di flashback che vanno a interrompere il racconto con voci fuori campo e immagini di amici e familiari che hanno attraversato la vita del protagonista. Il monologo così si tramuta in canto polifonico, frantumando il punto di vista onnisciente del protagonista, incuneando il dubbio che la testimonianza da frutto di ricordi nitidi e chiari, sia in realtà favorita da psicofarmaci, allucinazioni e derive causate dall’Alzheimer, di cui Barney soffre.

Salines, dall’alto dei suoi 79 anni, dona a Barney una fragilità a tratti commovente, colorando di cinico umorismo una recitazione che però alla lunga risulta troppo uniforme, privo di guizzi come di incaute cadute. E non bastano gli inserti audiovisivi a far deragliare uno spettacolo incanalato su binari sin troppo sicuri, da cui ci saremmo aspettati un pizzico di creatività in più.