Perché Clean, perché questa storia di resa dei conti, di perdono ed evoluzione in questo momento del suo lavoro?
Io quando faccio un film sento un’assoluta urgenza di realizzarlo, lo faccio perché lo sento non perché lo devo fare. Non cerco di capire il motivo psicologico che mi spinge a realizzare un film. Mi piace scrivere, discutere i miei film mente li faccio, lasciarmi portare dall’emozione che i personaggi suscitano in me. Ho un approccio intuitivo, istintivo al cinema. E’ la sola maniera di creare personaggi cinematografici che abbiano una vita. Dopo un film dai temi astratti come Demonlover avevo voglia di tornare ad una storia di personaggi, anche se avevo immaginato l storia di Clean prima di Demonlover. Nasce essenzialmente dalla mia voglia di fare un film con Maggie Cheung, di costruirle intorno una storia.
Quanto ha contribuito Maggie a costruire il personaggio di Emily?
E’ difficile dirlo. Molti temi sono venuti direttamente da Maggie. Uno di questi era il suo desiderio di voler cantare; lei è una delle poche star del cinema di Hong Kong non cantante e covava da tempo questo sono irrealizzato. Questa è una storia lineare e semplice; quello che gli dona modernità è il personaggio di Emily così frammentato, frutto di diverse culture come lo è appunto Maggie.
Lei ha definito pesante la macchina cinema mentre lei è invece in perenne ricerca di leggerezza. Come affronta questo apparente dualismo?
Per pesantezza mi riferivo all’impossibilità di lavorare con una troupe leggera, piccola in Canada, cosa che invece faccio solitamente in Francia. La leggerezza è un tema molto importante per me tanto che per questo film abbiamo usato una cinepresa molto piccola, simile ad un 16mm, quasi una camera digitale anche se unnpo’ più rumorosa.
Nei film precedenti ha esplorato il mondo dei giovani negli Anni Settanta, i serial muti da rifare nella contemporaneità, i cyber-manga ed ora il rock e le sue derive esistenziali. Da dove viene il suo interesse per queste culture alternative, underground?
Mi sono sempre interessato all’arte popolare. Sono nato negli Anni Sessanta, la mia ispirazione per scrittura, personaggi ed ambienti deriva più dall’osservazione del mondo tramite altre arti che non attraverso il cinema.
Molto forte è il rapporto che ha instaurato con la cultura orientale. Ce ne vuole parlare?
Vi è stato un periodo in cui non trovavo grosse affinità con il cinema francese. Mi sentivo uno straniero nei confronti del cinema francese, non avevo dialogo con gli altri registi. Mi sono così rivolto altrove in cerca di risposte e soddisfazioni a ricerche che avevo intrapreso. Ho trovato le risposte che cercavo nella cultura orientale, una scoperta che quindi noin ha nulla di esotico.
Cosa l’ha spinta a scegliere Nick Nolte per il ruolo del suocero?
E’ stata una vicenda assai complicata. All’inizio il ruolo doveva essere interpretato da Alan Bates. Ma poi a tre settimane dall’inizio delle riprese il mio gente mi ha comunicato che Alan Bates era malato ed il medico non dava l’autorizzazione a girare. Io lo avevo scelto perché lo ammiravo ma anche perché c’era bisogno di un attore importante inglese per la co-produzione del film.
Risolti i problemi di co-produzione mi sono trovato libero si scegliere un attore americano per cui avevo pensato la parte in fase di scrittura: Kriss Kristofferson, che però era impegnato e Nick Nolte.
Gli ho spedito la sceneggiatura ed ha accettato di girarlo, anche se io non ci ho creduto veramente finché non lo ho visto sul set, scoprendo un uomo di grande qualità umana.
Nessun commento