Sei un genio ma una rarissima malattia ti sgretola il corpo. Non puoi camminare, non potrai parlare ma potrai continuare a pensare. E ad amare. Ovviamente non una sola persona.
La teoria del tutto è un biopic senza carattere, indeciso tra pubblico, privato e divulgazione, nobilitato da una grande interpretazione, cinematograficamente prevedibile, ma interessante e tutto sommato spietato nell’analisi dei movimenti imprevedibili di quel muscoletto involontario chiamato cuore.
Hawkins, ci illustra il film, viene tenuto in vita dalla forza del sentimento di una ragazza cattolica, lui ateo impenitente, che lo accudisce, lo sposa, gli da tre figli, rinuncia a tutto, lo accompagna nel decadimento fisico, in una parola lo ama.
Ma come reagirà quando dopo tutti questi sacrifici suo marito non ci penserà due volte a flirtare prima e sposarsi poi con l’infermiera? Un po’ di sconcerto, qualche lacrima e via tra le braccia dell’ambiguo maestro del coro della parrocchietta. La qualità del film, è che ci presenta l’intreccio in maniera molto british, senza enfasi, senza retorica, perché a ben guardare questa è la vera teoria del tutto: l’amore è vita e come la vita ha il percorso segnato. All’inizio c’è il Big Bang, la concentrazione dell’energia che esplode, poi, dopo un periodo di assestamento, lentamente si disperde fino all’esaurimento. Per riesplodere in un altro universo. Se non si è inghiottiti dal nero dell’infinito.
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