Lino Banfi è stato nominato per rappresentare l’Italia nella commissione dell’Unesco. Una decisione presa da Luigino Di Malo, Vice Presidente del Consiglio e Ministro del governo italiano. Il fatto quindi sembrerebbe squisitamente, e per qualcuno drammaticamente, politico. È invece culturale.

Il gusto del revival unito allo snobismo intellettuale ha prodotto a cavallo degli anni 2000 una rivalutazione di un certo cinema sgangherato che il tempo aveva già spazzato via per manifesta inconsistenza. Trasmissioni televisive hanno dato lustro a commediacce che non facevano ridere se non nei titoli, con vigilasse, cornetti alla crema, ubalde tutte nude e tutte calde. La feccia del nostro cinema, in quegli anni così pieno di talento, è diventato il vessillo della intellighenzia salottiera. Sdoganate queste commedie sono diventato tessuto connettivo della cultura italiana. Tutti potevano dirsi esperti di cinema. Non bisognava rompersi le palle con un film di Visconti, dormire con quelli di Antonioni, annoiarsi con quelli di Fellini, bastava un film di Pierino con Alvaro Vitali e Lino Banfi.

Via tutto ciò che puzza di impegno, di poetica, di scrittura, di ironia, basta con tutti questi che se la tirano. Uno vale uno, un paio di tette, un buco della serratura e un’ora e mezzo è passata senza tante storie, senza tante pippe mentali. Lo dice pure Gassman nel “Sorpasso”. Ecco appunto, quello era il Sorpasso di Dino Risi, non Stracult.

La nomina di Lino Banfi è figlia di questa impronta culturale piovuta a un certo punto sul nostro paese, sospinta dal vento dell’iirrequietezza di un anticonformismo coatto e ignorante che ha omologato in basso il gusto e l’attitudine all’arte del nostro paese.

È come se l’Europa dovesse scegliere un testimonial per promuovere la bellezza del tennis e invece di Federer scegliesse Claudio Panatta.

Ce lo meritiamo Lino Banfi. Anzi ci rappresenta perfettamente.