“Chissà
se si perdono prima le vocali o le consonanti”.
Domanda strana quella che si pone Giovanni, detto Vanni
(Vittorio Franceschi). Domanda che forse può
venire in mente solo a chi condivide il suo dolore e
la sua inquietudine: professore di botanica, sui sessant’anni,
sta per morire. Vive costretto su una sedia a rotelle
a causa di una malattia degenerativa, nella casa di
famiglia con l’onnipresente sorella Rosa (Laura
Curino). Dopo aver trascorso la vita tra viaggi, esplorazioni,
letture e ritrovamenti “da nobel”, si ritrova
immobilizzato e dipendente in tutto e per tutto da Rosa.
Oltre ai due parenti, in casa vive un’altra entità:
Daphne Giovannina del Borneo, la scoperta più
importante della carriera di Vanni, e quarta protagonista
in palcoscenico, con la sua presenza muta ed immutabile
che scandisce il tempo. Ma allo studioso non interessano
più i riconoscimenti terreni. Vanni desidera
andarsene senza dare impiccio ai presenti, per poter
lasciare un ricordo di se ancora cosciente e lucido.
Ha un piano, gli serve solo un aiuto per metterlo in
atto. La risposta alle sue domande può arrivare
solo dall’amore: da Sibilla (Laura Gambarin),
un’ex allieva con cui ha trascorso momenti indimenticabili.
Tre anni prima il pudore e l’onestà intellettuale
gli hanno impedito di portare avanti una relazione con
una 24enne, ma ora è il momento delle decisioni
definitive. Sarà lei a permettergli di superare
lo stallo fisico, portandolo a suonare il violino nella
penombra del ricordo... La ninfa vitale di Daphne, infatti,
è costituita da un veleno (ironia della sorte),
impossibile da individuare una volta ingerito. Il suo
“nobel” diventa il tramite per liberarsi
dall’infelicità. E sarà la devozione
e l’onestà sentimentale a dare la forza
a Sibilla di spezzare la preziosa fogliolina, che umetterà
le labbra di Vanni.
Il resto è solo silenzio, pietà e ricordo.
Spettacolo da non perdere, Il
sorriso di Daphne. Diretto da Alessandro
D’Alatri, alla sua prima prova a teatro. Il tocco
cinematografico non svanisce, ma viene filtrato all’interno
dell’unica scena (una stanza con un letto, una
scrivania e una libreria). Le pareti si trasformano
grazie ad un elegante gioco di luci e ombre che ricreano
finestre battute dalla pioggia e l’interno della
cucina. Quella centrale, invece, è dominata da
un’enorme libreria.
I tre attori in scena sono affiatati: il dolore, l’amore,
la quotidianità e la gioia di vivere vengono
trasmesse in platea con semplicità e immedesimazione
nel testo, scritto dall’ottimo Vittorio Franceschi.
A Roma, la presenza in sala della vedova di Luca Coscioni
e di Piergiorgio Welby hanno dato credibilità
al tema trattato. [valentina
venturi] |
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