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Ideazione |
Pippo
Delbono |
Regia |
Pippo
Delbono |
Scene |
Claude
Santerre |
Sarta
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Giada
Fornaciari |
Luci |
Robert
John Resteghini |
Direttore
Tecnico |
Sergio
Taddei |
Fonico |
Angelo
Colonna |
Compagnia |
Compagnia
Attori e Tecnici |
Interpreti |
Dolly Albertin, Gianluca Ballaré, Raffaella Banchelli,
Bobò, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Lucia
Della Ferrera, Ilaria Distante, Gustavo Giacosa |
Produzione |
2006 |
Genere |
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On
stage |
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Note |
Prima
nazionale: Roma, Teatro Argentina, 3 ottobre 2006 |
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Si parte
da un romanzo sconosciuto: un libro trovato durante un viaggio
in Birmania, un paese senza libri, un paese dove la dittatura
li ha cancellati. Il libro è l’autobiografia
di Harold Brodkey, un individuo morto di AIDS dopo mille peripezie
sia mediche che esistenziali.
Si parte da dove eravamo rimasti: il “circo Delbono”
e le sue immagini poetiche. Lo spettacolo è fortemente
autobiografico come sempre, questa volta di più, quasi
un commiato, un testamento, una biografia-performance.
All’inizio il protagonista è Nelson, l’ex
barbone: sta in mutande, magrissimo. Ha una maschera africana
che chiarisce subito il primo messaggio. Poi, sempre in mutande,
intona My way di Frank Sinatra, scende tra il pubblico per
prendersi la sua dose di applausi.
Lo spettacolo decolla durante le scene corali, la grande forza
emotiva del teatro di Pippo Delbono: la prima mostra il calvario
del sieropositivo tra ospedali e prelievi di sangue, sale
d’attesa e siringhe. Muri color bianco sfavillante,
sedie anonime, i numeri del proprio turno annunciati in maniera
sempre più isterica dall’infermiera di turno.
La seconda è una scena barocca piena di cenerentole,
ognuna alla prova della scarpa, una sola potrà ballare
il valzer con il principe, le altre staranno a guardare. La
scena finale è una marcia solenne di loschi figuri
nerogrigi, simboli di morte, con eccentrici costumi dark-chic.
Il collante alle ultime due scene, che insieme generano l’asse
portante dello spettacolo, sono ancora una volta Gianluca,
il ragazzo down, e Bobò, il sordomuto microcefalo.
Interpretano due arlecchini che si prendono per mano, e che
sembrano condurci – simboli di morte anch’essi
come ci insegna la Commedia dell’Arte – verso
la fine.
Grande sforzo per i costumi. Bellissimi sia quelli della scena
ottocentesca, sfarzosi e colorati, sia quelli del finale,
originali, che rivelano un senso estetico sempre sfiorato
negli spettacoli di Delbono ma mai così trionfalmente
esposto.
Tra le musiche si riconoscono le colonne sonore di In the
mood for love e 2046 del grande regista Wong Kar Wai.
C’è tempo ancora per una danza seminuda del regista
Pippo Delbono, dove egli ritrova le sue radici e i suoi inizi
con Pina Bausch, e lo sfogo della sua danza, a tratti isterica
e a tratti dolce e malinconica, ricorda la sua maestra tedesca.
Il suo movimento incessante sembra ripetersi all’infinito,
sulle note di una chanson francese, mentre la sua ciurma –
tutti in nero accompagnati dai due alfieri-arlecchini –
vanno a prendersi la loro meritata ovazione.
Scrive Pippo Delbono: “Soprattutto nei paesi occidentali
è stato bandito il pensiero della morte. La morte rimane
come paura, come perdita, come dolore, raramente come coscienza
lucida, profonda, del vivere”, ancora una volta ci ha
trasmesso tutto quello che voleva. [simone
pacini]
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