Tempi
duri per l’amore, non c’è che dire.
Se per Woody Allen con il suo ultimo lavoro Vicky
Cristina Barcellona l’amore vero, romantico
è solo quello impossibile, non corrisposto,
consumato a distanza, per David Mamet è un
sentimento che l’Occidente non può permettersi,
avendo costruito una società arida al suo germogliare,
ieri (1974, anno in cui scrisse il suo caustico Perversioni
sessuali a Chicago) come oggi nella messa in
scena vintage di Massimiliano Frau al Teatro Argot
Studio di Roma, fino al 26 ottobre.
Quattro voci dissonanti, quattro personalità
che s’incontrano, parlano, sparlano, litigano,
desiderano, amano ed odiano intorno ad un solo grande
tema: il sesso.
Danny e Deborah si conoscono, scopano, cercano di
trasformare il tutto in una relazione stabile e continuativa.
Ma devono fare i conti con la realtà che sembra
non condividere i loro piani e con l’incursione
di due amici, complici, amanti (?) sin troppo invadenti.
Se Bernie non fa altro che bombardare Danny con racconti
di portentose prestazioni sessuali, improntate al
più delirante machismo ad alto tasso di misoginia,
Joan incattivita ed inacidita da una insoddisfazione
profonda e misteriosa, distilla pillole di risentite
analisi del comportamento maschile all’ingenua
ed incantata Deborah.
Attraverso un linguaggio esplicito, frammentato, franco
Mamet illustra con lucida intelligenza e sfrontata
cattiveria i rapporti tra uomo e donna. Rapporti che
trent’anni di “evoluzione” (da quando
il testo è stato scritto) non sembrano aver
migliorato, ma anzi peggiorato e spersonalizzato con
l’avvento della comunicazione interpersonale
mediata da cellulari (sms) e internet (email).
“Ciò che mi colpisce di questo testo
– racconta il regista Frau – è
la capacità di raccontare una storia d’amore
mancata, raccontarla solo in maniera fenomenica, intuire
la storia dai tanti flash che appaiono nel testo:
il dialogo ossessivo quasi perde il suo senso lasciandone
intuire un altro, più a fondo, più dai
silenzi che dalle parole”.
Una messa in scena sobria e funzionale, con quinte
fisse e movimento scenico creato dagli attori stessi
insieme ad un gioco di luci che ci precipita nel bel
mezzo degli Anni Settanta, evocati attraverso musiche
e costumi che ben si adattano alla fisicità
dei giovani attori. Uno spettacolo in cui si abbattono
barriere fisiche – la piccola sala dello Studio
Argot crea un clima di intimità e partecipazione
tra attori e pubblico – e psicologiche, in cui
si evoca il sapore dello sperma e rapporti sessuali
improntati al feticismo sado-masochista.
Bravi Giuseppe Tantillo e Nicola Nicchi nei panni
rispettivamente di Danny e Bernie: dimostrano di avere
una buona confidenza con i tempi ed i ritmi teatrali,
capaci di restituire il linguaggio sporco di Mamet
con veridicità e colore. Più timide
le interpretazioni femminili di Sarah Maestri (Deborah)
e Antonella Civale (Joan) non aiutate da un testo
improntato su un forte maschilismo misogino che –
e qui forse risiede l’unica debolezza del testo
– sembra guardare con maggior cura una parte
rispetto l’altra.
[fabio melandri]