Un ritmo
ironico e sostenuto caratterizza questo monologo doppio interpretato
solo da Anna Marchesini che scopre e recupera una sorprendente
energia teatrale ne LE DUE ZITTELLE, testo letterario di Tommaso
Landolfi eletto a copione dall’attrice che mette in
scena tutti i personaggi e ne cura la regia.
Così, quel suo sguardo straniato e raffinato si affida
totalmente al linguaggio iperbolico e beffardo dell’autore
toscano, capace di cogliere gli uomini nella loro quotidianità,
mettendo in risalto i difetti e le paure e disegnando figure
scomposte, irresistibili, pettegole, uniche deviazioni possibili
alla banalità. Nascono le immagini e le voci, soprattutto,
di Lilla e Nena, le due anziane sorelle che vivono in un microcosmo
familiare grottesco e bigotto con la fantesca serva Bellonia,
guidate da una madre dispotica come Donna Marietta. Lo spaccato
antico ma non proprio estremo di una provincia italiana annoiata
e piatta, viene improvvisamente sconvolto dalla presenza dissacratoria
di Tombo, la “scimia” che travolge la lenta e
claustrale vita di un convento con messa blasfema, monsignore
trombone e pretini isterici in un’esilarante carrellata
di colpi di scena. Allora l’istrionico fregolismo nel
quale da sempre si è cimentata la singolare interprete
cresciuta nella compagine del celebre Trio televisivo, acquisisce
nuovo mordente, supportata dalle fogge imbottite ed imparruccate
contenute nei costumi di Santuzza Calì ed inscritte
nella scenografia semirealistica – cucina, salotto e
camera da letto – di Carmelo Giammello.
Ma il merito e l’onere di costruire in autonomia tutto
lo spettacolo è ancora una volta completo appannaggio
di una mattatrice in grado di variare i suoi estri lessicali
attingendo al materiale artistico di tutta una carriera: proprio
lei dunque, spiega i motivi per i quali affrontare e ricostruire
la favola nera di Landolfi «un altro monologo sempre
più difficile e senza rete, sempre più imbottito,
ciarliero, chiassoso, sfrenato, polifonico e zoologico, con
cui oltre che ridere, io una trina e multipla spero di raccontare
un luogo e un tempo che alcuni di noi possono ricordare, altri
non hanno mai conosciuto».
Un teatro onirico fatto di gesti, azione e voce esploso dal
magistrale montaggio di un romanzo, pubblicato nel 1946, con
un gusto un po’ retrò ma volentieri trasgressivo,
fatto di immagini di sicuro dissacranti e spiccatamente ridicole.
[valentina venturi]