Che significa?
Dopo un’iniziale incertezza, un demiurgo indicherà
loro la via attraverso degli indizi sparsi, delle esche. Può
essere una chitarra come un biglietto. Frase dopo frase si
svela il mistero. Alla fine, unendo i tasselli del puzzle,
le loro vite saranno legate per sempre.
Si può
definire un giallo?
Anche, ma non solo. È un thriller psicologico perché
i protagonisti in tempo reale con lo spettatore capiscono
cosa accade. Ma nel contempo è anche un’opera
in cui si svolge il teatro nel teatro. Non voglio svelare
troppo, ma la presenza esterna che lascia loro capire cosa
sta accadendo, ha anche una veste di regista. Come se il testo
avesse due livelli narrativi, che da paralleli finiscono per
incrociarsi.
Per dare
credibilità al suo personaggio, su cosa ha lavorato?
Ho voluto mettere in evidenza il graduale svelamento del “mio”
carattere. Sul palco sono un ragazzo introverso, con poche
sicurezze. Quando qualcuno tenta di annullarle reagisco con
l’ira, la rabbia e la paura. Il ricordo di mio padre
morto è tema così delicato che il regista/demiurgo
tenta di scalfirlo. Accettare che vengano messi in dubbio
i propri valori è inaccettabile. Anche per questo mi
piace molto.
Cosa l’ha
coinvolta di questo ruolo?
È una parte interessante: mi permette di recitare su
più livelli, di cambiare assieme a lui, assecondando
le reazioni che ha. Dalla paranoia alla dolcezza, dall’indecisione
alla rabbia: un registro emotivo ampio.
La scena
come si presenta?
È scarna: c’è un letto, dei comodini,
alcune sigarette. È funzionale alla storia. Sono i
due individui e i dialoghi ad avere importanza.
Cosa augura allo spettatore?
Spero che rimanga ipnotizzato dal gioco tra i due personaggi,
che venga coinvolto nell’incastro mentale della vicenda
e abbocchi alle loro esche. Sul palcoscenico sono personaggio,
ma anche persona. Questo dualismo non viene mai meno.