Dal libro
omonimo di Massimo Lolli il nostrano Eugenio Cappuccio estrae questo
silenzioso, provocante, quasi pungente film, incentrato sulle relazioni
di una multinazionale dei nostri giorni e i suoi personaggi.
Le dinamiche cinico tattiche di un ragazzo alle prese con la carriera
mangeriale e col personale d'azienda intrecciano la sua vita privata
e le sue relazioni affettive. C'è un solo obiettivo per sanare
il bilancio. Un solo target. Tagliare i costi a discapito delle risorse
umane. Venticinque teste da recidere. Venticinque piccoli indiani
che cadranno uno dopo l'altro, per accontentare le esigenze della
nuova dirigenza. Non sarà indolore. Giorgio Pasotti migliora
sempre di più. Dopo la stravagante ma azzeccata versione tricolore
di Buster Keaton in Dopo mezzanotte di
Davide Ferrario si misura con successo e stile nello yuppie rampante
alle prese con la scalata sociale. Anche Cristiana Capotondi sorprende
per la buona interpretazione della ragazza patinata da "club
e vernissage" della Milano "bene" di inizio millennio.
Il plot è originale e la recitazione del cast sopra la media
tengono insieme le fila del tutto, reggendo la storia nonostante i
ritmi siano lenti e bisognosi di costante attenzione psicologica.
Il film è intelligente e indaga con cura e un pizzico di noir
i risvolti di un mondo, quello lavorativo, portato all'eccesso per
intensità e rapporti interpersonali. "L'azienda ha bisogno
della tua vita e del tuo tempo, sempre!" ringhia l'assistant
manager tecno-cinese a Borghi, il Responsabile delle vendite. L'azienda
vuole. Esige. Marco Pressi ha innescato il countdown dell'annientamento
personale, un percorso quotidiano asettico dove niente viene approfondito
o assorbito. Piaceri, rapporti, discussioni trovano nella superficialità
la forma espressiva più immediata e di facile consumo.
Il titolo del film (e del libro) sottolinea l'era del sentimento fast
food, condito dalla competizione e dalle amicizie di circostanza,
e non è un semplice poetico alludere al romanticismo medioevale.
"Ti stimo molto" è la frase chiave del giovane Dottor
Pressi, un saluto preconfezionato come un cibo in scatola per chi
non ha tempo. Tre parole in fila, ordinate e sintetiche, frutto della
distorsione professionale e del riflesso meccanico appreso per ripetizione,
per osmosi da ufficio. Il distinguo tra colleghi, amici, amanti, parenti
non c'è più. Per Pressi tutto e tutti sono dipendenti
di una vita ormai troppo dentro al gioco dei grandi.
Poco prima della fine, nella sala d'attesa, il figlio di Jean Claude,
il Direttore Generale e Marco Pressi si trovano uno di fronte all'altro,
come in uno specchio, quasi si somigliano. Il bambino sorride. Sembra
che le due generazioni si sfiorino, si tocchino. Un riflesso che verrà.
Come a percepire un'innocenza che si perde col tempo, un'umanità
fresca e ingenua che il crescere ci atrofizza per farci adattare miseramente.
Dovremmo ricordarci più spesso di essere stati bambini e farci
tornare quella voglia di giocare perduta insieme al diploma delle
superiori in fondo a qualche cassetto della memoria. Fare i grandi
costa caro. La pellicola è quasi interamente girata in interno.
Azienda, locali, case. La sensazione claustrofobica delle locations
viene trasmessa anche allo spettatore che assorbe il sottotesto e
si perlustra la psiche quasi senza accorgersene. Se Michelangelo Antonioni
avesse l'età di Eugenio Cappuccio oggi, forse farebbe film
simili a questo.
Dove la borghesia è indagata, dentro e fuori. Scandagliata
come un mare oscuro pieno di interrogativi. Cappuccio analizza quasi
clinicamente una classe sociale, in particolar modo quella manageriale,
provando ad estirparne i demoni maligni, senza però attuare
quell'esorcismo naturalistico del regista ferrarese. Si scorgono le
ombre di Marcello Mastroianni de La notte,
i colori densi di Deserto Rosso e le
alienazioni dei film del maestro inventore del cinema moderno. Il
film rappresenta quello che noi oggi siamo, la nostra società
e tutti i suoi derivati controsensi.
Carriera, ambizione, straordinari. Sento nelle mie orecchie insinuarsi
parole non mie, si schiantano come jet in caduta libera quelle di
Giuseppe Culicchia in "Bla Bla Bla", "...fotti le nostre
cucine economiche, fotti le nostre ferie programmate, fotti orari,
regolamenti, stipendi, doppi servizi, bolli auto, spese condominiali,
bollette del gas.andatevene via bastardi! Ingoio la luce, occhi che
respirano, sono felice, lo sento. Questo è il gran finale".
Si lavora per vivere, non si vive per lavorare, ma questo Marco Pressi
non riuscirà a capirlo.
[alessandro antonelli]