“Il
punto fondamentale di questo film è che non parla di
liberali e conservatori, di Democratici o di Repubblicani.
- racconta il regista - Il punto chiave del film è
che c’é qualcosa di sbagliato in un sistema se
la gente comincia a sentirsi lontana anni luce e non rappresentata
dai politici che ha votato. L’Americano medio ha la
sensazione che il Governo non stia rispondendo alle sue esigenze”.
A Barry Levinson - apprezzato sceneggiatore di A
cena con gli amici, … e
giustizia per tutti, L’ultima
follia di Mel Brooks e regista di altri due film “politici”
come Good Morning Vietnam e Sesso
e potere – piace trattare di politica, affrontarla
con i toni dell’ironia condita da sarcasmo per depurarla
delle sue devianze e restituendocela pura, “bella”
come la definirebbe Walter Veltroni. La bella politica, quella
dove l’uomo politico è al servizio del cittadino
e degli interessi del cittadino e di conseguenza del paese.
Colui che parafrasando un celebre slogan, “non dovrebbe
chiedere mai” ed invece è condannato a rendere
conto alle lobby che lo sostengono.
Può un comico diventare Presidente degli Stati Uniti?
Qualcuno risponderebbe che è già successo con
l’attuale inquilino della Casa Bianca, George W. Bush.
In effetti gli agganci alla realtà ci sono, evidenti
e dichiarati dallo stesso Levinson: “Dopo le elezioni
ci siamo posti tante domande sulle macchine elettroniche per
il voto usate dell’Ohio e negli altri stati, chiedendoci
soprattutto se fossero attaccabili dagli “hackers”
oppure no. Inoltre, non bisogna dimenticare che in quell’occasione
c’era stata anche la candidatura di Ralph Nader come
terzo incomodo a complicare ancora più le cose. Il
dibattito e le riflessioni scaturite da quelle elezioni mi
sono sembrati un ottimo punto di partenza per la mia nuova
sceneggiatura”. Il regista-sceneggiatore era soprattutto
interessato al fatto che, una volta entrati nel nuovo millennio,
il voto elettronico è diventato ormai ineludibile ed
inevitabile. A cominciare dallo scandalo delle “schede
elettorali discusse” in Florida nel 2000 che hanno messo
in discussione la legittimità stessa delle elezioni
fino ai problemi tecnici con le varie macchine verificatisi
negli ultimi anni, insieme ai ritardi nell’arrivo dei
computer, agli exit polls non esatti e agli errori umani,
le storie di questo tipo hanno invaso la stampa e i media.
Da qui la storia del comico televisisvo Tom Dobbs (Robin Williams)
– personaggio alla David Letterman o calati nel nostro
panorama Beppe Grillo o Daniele Luttazzi - che per una mera
questione di doppie consonanti manda in tilt il sistema di
conta dei voti elettronici divenendo Presidente Incaricato
degli Stati Uniti D’America. L’inghippo viene
scoperto da una solerte dipendente (Laura Linney) della ditta
appaltatrice del servizio di elaborazione dati per conto del
Governo degli Stati Uniti, che tenta di avvertire prima i
suoi superiori, inutilmente, in seguito lo stesso Presidente
incaricato, che intanto aveva iniziato a godersi dei vantaggi
del nuovo status.
Tra populismo, qualunquismo ed un pizzico di umorismo, Levinson
costruisce un film impuro a metà strada tra film di
satira e thriller fantapolitica. Discontinuo, incapace di
prendere una direzione decisa ed univoca, il film nasce con
le migliori intenzioni ma delude nella sua realizzazione;
un film che voleva essere cattivo ma profuma di buonismo ad
ogni snodo narrativo.
Nota lieta l’interpretazione di Robin Williams. Il tempo
che passa oltre a donargli nuove rughe, gli permette sfumatura
interpretative e dolenti che rendono i suoi personaggi più
veri, depurati dall’eccessivo clownismo con cui erano
dipinti, fatte rare eccezioni, molti dei suoi personaggi in
passato. [fabio melandri]
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