Quando
Martijn si reca in Marocco per avviare una organizzazione
umanitaria a tutela dell’infanzia malnutrita, viene
rapito insieme alla sua guida da un gruppo di terroristi locali.
Sotto minaccia di morte, il ragazzo si trova suo malgrado
a giocare con il suo carceriere/aguzzino una partita dove
le sue dita sono la posta in gioco.
Cosa nasconde Marijn e chi è in realtà il giovane
attivista pacifista? Chi è realmente Ahmat, il capo
dei terroristi, e quali sono le informazioni che vuole estirpare
al giovane?
L’impianto narrativo di questo thriller da camera è
tipicamente hitchcockiano, con un uomo invischiato in una
situazione apparentemente più grande di lui; un presunto
innocente immerso in un intrigo internazionale. Aggiungete
le paranoie post-11 settembre di cui il regista e co-sceneggiatore
Laurence Malkin (autore dell’inedito Soul
Assassin) condisce il plot ed avrete un thriller psicologico,
giocato sul filo del dubbio e insaporito da non-detti, allusioni,
reticenze che aprono inattesi sviluppi narrativi sfocianti
in un finale inatteso...
“Five Fingers
affronta e supera stereotipi predominanti – afferma
Laurence Fishburne, protagonista e produttore della pellicola
– e riesce a sconvolgere i nostri preconcetti, facendoli
emergere e ribaltandoli… Sia Ahmat che Martijn non mettono
in discussione la propria figura di eroe, ma cosa è
lecito fare per combattere il terrorismo? Fin dove ci si può
spingere, una volta accertato che si è individuato
il vero nemico? La struttura del nostro film presuppone che
le risposte vadano ricercate da ogni singolo personaggio e,
di conseguenza, da ogni singolo spettatore.”
Cosa non funziona allora in questa pellicola interpretata
insieme a Fishburne (Mission: Impossibile
3, Matrix, Mystic
River) dal giovane Ryan Philippe (So
cosa hai fatto, Cruel Intensions,
Gosford Park, Crash)
ed a Gina Torres (Matrix Revolutions,
Matrix Reloaded) compagna di
Fishburne? E’ la regia di Malkin l’anello debole
della catena, incapace di gestire al meglio i duelli psicologici
e lessicali tra vittima e carnefice, concentrandosi troppo
sulla ricerca di immagini eleganti con una inutile movimentazione
della camera da presa che distrarre troppo l’attenzione
dal fulcro della storia, ovvero i dialoghi che vanno a costruire
l’ambiguità di atmosfera che da tono e colore
all’intera pellicola. [fabio melandri]