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OCCHI LIQUIDI
Se racconti una storia
d’amore, non puoi seguire logiche temporali. Non
esiste la contemporaneità: il passato si mescola
al presente che proietta di sé l’immagine
nel futuro. La narrazione non deve avere punti di riferimento
razionali causa/effetto.
Non ti piacciono
i tatuaggi? Ne scoprirai uno a forma di fiocco sul dorso
della donna della tua vita e non potrai più farne
a meno.
Sogni una bella
casa comoda, tecnologica e il tuo uomo vive in una roulotte?
Non farai storie e quella roulotte sarà il tuo
regno. Una storia
d’amore si racconta con gli occhi. Chi ha avuto
la fortuna di vederli li riconosce subito, gli occhi liquidi
di una donna innamorata. È una luce particolare,
velata, che dona allo sguardo una profondità ultraterrena
che ti entra dentro, bypassa il cervello e arriva diretta
al cuore. E chi ha avuto la fortuna di vederli, riconosce
subito quando la luce non c’è più.
Lo sguardo diventa trasparente, l’occhio vitreo
e l’angolo della bocca s’increspa in un sorriso
che sembra una smorfia.
Ma un sentimento
così intenso non finisce mai, a meno che il destino
si scateni e uccida il figlio con un tumore devastante.
Allora non c’è salvezza, tutto è finito,
vince la morte, l’abbandono e nulla ha più
senso.
L’amore
sarà solo l’ultimo barlume di vita tatuato
sul corpo prima di suicidarsi.
Il film è “Alabama
Monroe - Una storia d'amore (The Broken Circle Breakdown)”,
l’attrice dagli occhi liquidi si chiama Veerle Baetens.
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QUESTIONE DI STILE
“Devil’s
Knot”, un episodio di cronaca particolarmente
efferato: tre bambini vengono uccisi in un bosco. La comunità
è sconvolta, c’è bisogno dei colpevoli.
E i colpevoli vengono trovati e condannati. Ma sono innocenti
e allora le vittime diventano sei…
Assenza di ritmo, atmosfere sospese, recitazione sobria,
regia distaccata, volutamente distaccata. Il fatto di
cronaca si analizza tangenzialmente osservando con la
lente dell’entomologo i comportamenti umani dei
personaggi invischiati nella storia: i genitori, i ragazzi,
lo sceriffo, la comunità e chi nella comunità
non è omologato. Nessuna scena madre, nessun momento
di tensione tipico del genere. Gli snodi narrativi avvengono
non attraverso invenzioni di sceneggiatura, ma con semplici
didascalie.
È la conferma di uno stile freddo, non attrattivo,
atono e inquietante. Una costante del cinema di Atom Egoyan.
Uno stile che nelle espressioni migliori come “Il
dolce domani” suscita sgomento e
inquietudine e in quelle peggiori come nel caso di “Devil’s
knot” irritazione e indifferenza.
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PRONTUARIO DEL CRITICO CINEMATOGRAFICO
MODERNO:
LA RECENSIONE
Prendete
un film, qualunque: d’autore, trash, giallo, panettone,
blockbuster. Eventualmente guardatelo, ma non è
necessario. Fatevi dare la cartellina stampa dalla casa
di produzione. Copiate la trama che non ve la ricordate
o che avete delle difficoltà a riassumere, leggete
le intenzioni del regista e mettetele come cappello iniziale.
Proseguite con delle considerazioni ordinarie sulla fotografia,
sugli attori o sulla sceneggiatura tipo:
«buchi di sceneggiatura»
«prova particolarmente ispirata»
«in un elegante bianco e nero»
«film scritto bene»
Fate
un parallelo per analogia o per contrasto con le opere
precedenti dell’autore (sempre facilmente reperibile
nella cartellina):
«Ancora si sentono gli echi del precedente»
«È un punto di svolta della carriera del
regista»
Finite
con delle considerazioni possibilmente ambivalenti:
«Talmente finto da sembrare vero (è valido
anche al contrario)»
«Non ci si annoia, ma questo non è cinema»
«Contorto ma in fondo lineare».
Questa
è la struttura base sulla quale è necessario,
per dare spessore culturale, richiamare sempre a qualche
altro regista aggettivando: Kubrikiano, Morettiano, Hitchcockiano.
Più la lettura della parola risulta complicata,
più verrà considerata profonda. Per esempio:
Inarrituiano.
Ultima
cosa, per rispettare il politicamente corretto e al contempo
andare incontro al lettore, ricorrere alla descrizione
del film attraverso un aggettivo in codice come:
RIGOROSO (mattone),
ONESTO (modesto ma conosco il regista),
VOLGARE (si ride).
Per
concludere si consiglia l’uso ricorrente delle locuzioni:
«Non è un capolavoro» (vi preserva
dalle cantonate)
«È un omaggio a…» ( quando non
sapete dove andare a parare).
Prossima
puntata: la Stroncatura
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Capitolo
secondo: NO TAV
Le ragazze di Lars Von Trier iniziano la
loro educazione sentimentale facendo una scommessa: chi
rimorchierà di più durante un viaggio in treno,
vincerà un pacchetto di caramelle.
Ecco, tutto questo
ai tempi dell’alta velocità non sarebbe possibile.
Quegli ampi scompartimenti a sei posti con le poltrone
in finta pelle reclinabili dove si è costretti
a guardarsi negli occhi e a eludere o compiacere gli sguardi
in un gioco di seduzione magnetica e sensuale, non esistono
più. I corridoi oggi sono tra due file di posti
a sedere e quelle camminate eccitate e febbrili del film
risulterebbero complicate.
I bagni poi non sono
più in fondo al vagone, grandi, sporchi, maleodoranti
e… Comodi. Sono raddoppiati nel numero e dimezzati
nelle dimensioni. Ma anche se per qualche fortunata coincidenza
si riuscisse a concupire qualcuno, attraversare il corridoio,
entrare nel bagno senza dare nell’occhio, nel bel
mezzo della battaglia erotica arriverebbe il solerte addetto
alle pulizie (mai esistito nei tempi che furono), che
col passepartout senza bussare, aprirebbe la porta...
Con l’alta velocità
si può fare di tutto, tranne che amare.
E Lars Von Trier è
decisamente un regista no tav.
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PROSSIMAMENTE – LE MERAVIGLIE
Quando il cinema si
vedeva al cinema si chiamavano Prossimamente. Ora si chiamano
Trailer. Sono la fortuna del film aldilà del valore
del film stesso: se fatti bene valgono mezzo biglietto
staccato. Per stabilire una scala di valori, invece di
elaborati teorici, meglio essere empirici e prendere come
riferimenti il meglio e il peggio degli ultimi anni.
Il meglio: il trailer di “Il
cavaliere oscuro - Il ritorno”.
Affascinante, misterioso, perfettamente montato su una
musica incalzante senza descrivere troppo la storia (un
errore costante è quello di raccontare la trama
del film al punto da dare l’impressione di averlo
già visto), si coglie l’ambizione di fare
qualcosa di più di un fumettone; si percepiscono
echi orwelliani e inquietudini esistenziali pur mantenendo
viva e presente la cifra spettacolare.
Risultato: il target si allarga. Oltre ai fan abituali,
si attirano spettatori non consoni al prodotto.
Il peggio: il trailer di “Le
meraviglie”. Si comincia su una
disquisizione sulla cacca. Voluta - certo - sono dei bambini
che ne parlano, naif, familiare ma pur sempre cacca. Poi
in un’atmosfera un po’ arcadia, un po’
montanara (o campagnola), si percepisce l’esistenza
di una famiglia felice. E da cosa verrà turbata
questa felicità? Dalla televisione, sembra. Una
bambina canta e vuole partecipare a un talent. E poi la
terra, le api, lo strano linguaggio del padre, la bambina
che canta una canzone pop che diventa la colonna sonora
delle immagini. Un trailer decisamente, intellettualmente,
anti attrattivo.
Risultato: il target si restringe. I fan abituali dei
filmetti italiani con pretese artistiche storcono il naso
di fronte alla sgradevolezza delle immagini e al tema
già mille volte affrontato (televisione=modernità
corruttrice), gli spettatori non consoni al prodotto saranno
contenti di restare tali.
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SLALOM
PARALLELO - IL MONOLOGO
Sei bravo sul lavoro, sei un padre esemplare
adorato dai figli, ami tua moglie, non fai mancare nulla
alla tua famiglia né affetto né beni, sei
buono, sei giusto, ti comporti secondo coscienza, rispetti
te stesso, il prossimo e non fai male a nessuno. Tutto inutile.
Alla prima debolezza
che manifesterai il destino (una donna probabilmente…)
ti annienterà minando la tua sicurezza e rubandoti
la serenità, il lavoro, la vita. È la parabola
amara e misogina di “Locke”,
l’ultimo film di Steven Knight che segna la nascita
di un nuovo genere: il monologo cinematografico.
In scena ci sono un
attore, un’automobile, un cellulare, un’autostrada
e le luci della notte. Ed è solo attraverso la
combinazione di questi elementi che prende corpo un giallo
iperrealista, nel quale la vita pulsa fortissima, incontenibile
e amorale. L’uomo che guida la macchina verso l’ospedale
- per un miracolo di regia e d’interpretazione -
riesce a racchiudere in sé quel mondo enorme e
piccolissimo che è l’esistenza sentimentale
quotidiana: la famiglia, il lavoro, il tradimento, il
sesso, l’amicizia, il senso del dovere, l’amore,
il non amore, il calcio, il fantasma del padre, la pace,
la guerra, la morte, la rinascita.
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VERSIONE ORIGINALE
“Il
ricatto” è un thriller catalano.
Bei titoli di testa, un buon inizio: un pianista è
chiamato a fare un concerto dopo cinque anni dal suo ritiro
dalle scene. La sala si riempie piano piano, lui è
molto teso, entra in scena, gli sudano le mani e poco
dopo comincia il concerto. A un certo punto sullo spartito
appare una scritta minacciosa e attraverso un auricolare
il pianista viene minacciato e ricattato in diretta. Da
qui in avanti si assiste al crollo verticale della tensione.
E non per la storia di per sé ai limiti della credibilità,
ma per quello che ormai è il più grande
problema del cinema non italiano: il doppiaggio. La voce
dell’assassino è comme il faut: flautata,
profonda, impostata, pause giuste da rimorchione, crescendo
modulato.
In una parola falsa. In due parole: falsa e ridicola.
La tensione si ammoscia, il giallo diventa farsa involontaria
e addio al film. La casta dei doppiatori italiani –
presuntuosi e spocchiosi -, è incapace di auto
giudicarsi.
Non c’è mestiere, non c’è tecnica,
non c’è capacità: è evidente
che la selezione delle voci viene fatta in base al nome
di famiglia, o per qualunque fattore che non sia il talento.
Il risultato è la diacronia che si sviluppa nel
rapporto tra immagine e dialogo. I blockbuster doppiati
trasformano la straripante fantasia artigianale dei plot
in storie incredibili nel senso letterale del termine:
non credibili; i film d’autore diventano stranianti
esercizi di cinema surreale.
Ormai vedere i film in lingua originale con sottotitoli
non è più il vezzo dell’intellettuale,
ma la necessità vitale di qualsiasi spettatore.
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I MAGNIFICI 7
Una domenica di aprile. La
primavera appena sbocciata. Gonnelline, muscoli, i carnai
e l’orrido mare a portata di mano. Roma si svuota.
Ma i magnifici sette restano in città a difendere
l’onore del cinema. Ore 16,30 al Filmstudio (storica
sala d’essai dietro il carcere di Regina Coeli), proiettano
“Karamazovi”
(“I fratelli Karamazov”). In platea sono in
sette: una coppia matura, tre single (due maschi e una femmina)
e, intrufolatisi all’ultimo momento, due fidanzatini.
Aleggia un po’ di tensione. Si teme il mattone. Sin
dalle prime scene però i dubbi si dissolvono: il
film è strepitoso e tanto basta. Gli attori perfetti,
forti, intensi; la regia nervosa ma fluida rende leggero
lo sviluppo narrativo; la musica una lama di rasoio. Un’ora
e cinquanta minuti tosti, incalzanti, avvincenti. È
Dostoevskij: l’anima è fatta a pezzi, il bene
e il male si mescolano, dio esiste ma è cattivo e
spietato. Teatro, cinema, letteratura, politica e sentimento
si fondono in questo piccolo grande film di Petr Zelenka.
Ma la sala è vuota. Dove sono tutti i fighetti del
Festival di Cinema di Roma? Dove tutti gli amanti del cinema
che si scaricano i film sul computer? E quelli che occupano
i luoghi pubblici in nome della cultura? Dove stanno, a
mangiare il cocomero? Ma non è ancora tempo, sono
acerbi!
I
magnifici sette escono dalla sala dopo essersi spillati
fino all’ultimo titolo di coda. L’onore è
salvo anche se la battaglia è persa: i cinema presto
chiuderanno tutti. Ma almeno loro sono diventati più
ricchi.
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IL GHIGNO
Il documentario “Quando
c’era Berlinguer” (ben fatto,
commovente per i nostalgici, informativo per gli agnostici,
consolante per gli antagonisti), spinge a una riflessione
che va oltre lo specifico filmico ed entra in quello politico.
Tu Alberto Franceschini che parli da una terrazza romana,
elevato al rango di testimone del clima politico di quel
tempo e addirittura al rango di storico, uno che la storia
l’ha fatta in prima persona, a un certo punto sostieni
che l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta,
ha centrato l’obiettivo: far cadere il compromesso
storico. Da via Caetani in poi quel progetto non sarà
più possibile, la coesistenza tra le due anime
del Paese è morta per sempre. E lo sottolinei con
un ghigno o comunque un lampo di soddisfazione sul volto.
Tra un’Italia riformista e una rivoluzionaria, tu
avevi scelto. E quella scelta l’hai portata fino
in fondo. Sarai contento di aver consegnato, con questa
lucida e spietata visione del futuro il mondo nelle mani
del consumismo più spinto, del quale si vedono
i riflessi nei tuoi occhialetti di marca.
Da Berlinguer al berlusconismo, il passo è stato
assai breve. E la tua lotta, i morti, la sofferenza, le
famiglie distrutte, il dolore fisico e morale che hai
scientemente seminato sull’onda di un’idea
trasformata in risentimento e odio freddo, hanno avuto
come risultato un Paese dominato dal profitto, dal narcotraffico
e dal desiderio violento di possesso (uomini-donne-oggetti-corpi),
dove l’unica cosa che manca e che non si può
comprare o desiderare è l’idea che siamo
uguali e che il denaro non conta, ma conta la felicità.
Perché tu, Franceschini, hai trasformato la felicità
di sperare in un mondo migliore in legge di natura, dove
vince sempre il più forte.
Quello che spara ammazza e ride soddisfatto.
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Capitolo
primo: IL MANIFESTO
Esperimento di critica trans-cinematografica.
Oggetto:
“Nhymphomaniac”.
Primo
step: critica pregiudiziale.
Non i soliti pregiudizi di appartenenza: destra o sinistra,
omo o etero, chic o cheap. Si giudica il film senza vederlo,
ma analizzando un elemento che in qualche modo lo contraddistingua.
In questo caso il manifesto. Attraente, ben fatto, graficamente
pulito ed efficace: sotto un logo stilizzato, due parentesi
tonde che evidentemente rappresentano l’organo genitale
femminile, sono riprodotte nove caselle in fila per tre,
al cui interno viene rappresentato il volto degli attori
colto all’acme del piacere. Le espressioni differiscono
l’una dall’altra e dipingono il carattere
dei personaggi: Stellan Skargaard non ha sentimenti, il
piacere brutale, la donna è solo uno strumento
per raggiungerlo. Shia Labeouf fuma una sigaretta, sesso
come necessità, ipercinetico, insoddisfatto, nevrotico
fa quello che deve fare, senza passione, per sopravvivere.
Uma Thurman sogna; non è il godimento urlato, liberatorio,
è estasi, sentimento, vita; niente di materiale,
orgasmo come puro spirito, rappresentazione divina.
Ma attenzione: finiti i ritratti del climax arriva come
una sciabolata, prima del casting, una scritta che rivela
l’antilirismo poetico di Lars Von Trier: “Forget
about Love”. Scordatevi dell’amore. Scordatevi
di tutte le immagini con cui vi hanno bombardato e liquefatto
il cervello: i tramonti sul mare, i baci perugina, il
romanticismo da operetta, le chiacchiere sull’amore,
le eterne promesse, il cuore, gli occhi languidi. Tutta
paccottiglia. Scordatevi dell’amore come ingenuamente
e forse furbescamente lo avete sempre pensato.
Questo è il vero amore: l’orgasmo. Non esiste
nient’altro.
E se qualcuno ve li fa provare, tenetevelo stretto.
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SAVING MISTER FREUD
Oggi parliamo di quel
tarlo che sta, piano piano sgretolando l’arte, la
società, il sesso, la vita stessa: il meccanicismo
psicologico. Prendiamo come spunto “Saving
Mr. Banks”, film peraltro riuscito
nel suo intento evocativo di riattivare le sinapsi dell’infanzia,
per crogiolarsi in una malinconia travestita da felicità.
La struttura narrativa dell’opera si basa su un
montaggio parallelo tra la vita della scrittrice Pamela
Travers da bambina (in particolare il rapporto col padre)
e la vita da adulta ripresa durante il contrasto avuto
con Walt Disney circa la cessione dei diritti d’autore
del romanzo “Mary Poppins”. Tutto è
direttamente conseguente: il passato trova preciso, addirittura
scientifico, riscontro nel presente. Lo stesso capita
a Walt Disney la cui ostinazione, si scopre alla fine,
deriva dalle cinghiate che l’amato genitore gli
rifilava da piccolo.
È la banalizzazione dei processi mentali ridotti
a una mera pratica di causa effetto.
Una sorta di razionalizzazione dell’inconscio (un
ossimoro).
Uno “psicanalismo” da talk show, dove la colpa
di qualsiasi comportamento la ritrovi nel rapporto col
padre o con la madre. E se lo pratichi sotto l’ombrellone
per lamentarti del capoufficio o in televisione davanti
a un plastico per giustificare un uxoricidio, poco male.
Ma al cinema, nell’arte e nella vita equivale ad
affossare l’imprevedibilità, ottundere la
creatività, soffocare lo spirito libero e uccidere
l’amore.
In un mondo dominato dal meccanicismo psicologico Picasso,
Fellini e Beckett farebbero i commessi da Ikea.
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NERVI TESI
Superando il tedioso mi piace
non mi piace (non ti piace la grande bellezza? Esticazzi!)
un criterio con cui valutare un film può essere quello
delle sensazioni suscitate. Rabbia, affinità, bellezza,
emozione, profondità, riso. Ma anche sonno (cosa
c’è di più bello, salutare e appagante
di addormentarsi dolcemente in una comoda poltrona? ), malessere
e irritazione. Sono tutti stati d’animo che solo la
maieutica del cinema riesce a tirare fuori.
“Lei”
per esempio è il classico prodotto urticante e
fastidioso, che induce a porgersi la domanda: Perché
sono cosi irritato? E qualsiasi film che mette in moto
il cervello è di per sé un film riuscito.
Perché
dunque? Nella confezione allestita dall’autore Spike
Jonze forse c’è già la risposta: plot
alla camomilla ma ben congegnato, fotografia esemplare,
metafore chiare: l’uomo non può amare che
se stesso, o al massimo una proiezione di sé e
in un mondo ultrachattologico il suo destino sarà
la solitudine. Ecco, nel continuo, un po’ stucchevole,
riflettere del personaggio sull’amore e sulla incomunicabilità
dei sentimenti manca l’elemento essenziale: la vita.
Non si palpita, non c’è passione, non si
ride, non si lotta. È tutto dato, tutto molto intelligente,
tutto perfettamente laccato ma una storia, una qualsiasi
storia (l’uomo che si innamora della macchina a
dir la verità è vecchia come il cucco) ha
bisogno di sangue, nervi, cuore, cervello e anche se non
esiste anima.
E
invece il regista sembra masturbarsi sulla perfetta luce
degli ambienti, sui colori pastello delle camicie, sul
controllo della macchina da presa, sui pantaloni a vita
alta del protagonista (doveva lanciare una collezione?)
e trasforma quindi l’amore, il motore del mondo,
in materia di supporto, inerte.
Si esce dalla sala molto innervositi e quindi soddisfatti
della riuscita del film.
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CINEMA DI GENERE
Esce in questi giorni nelle sale “Una donna per
amica”. Si dirà: «Che noia questo espediente
del titolo copiato di pari passo da una canzone di successo,
da “Sapore di mare” a “Notte prima degli
esami”». Obiettivamente non se ne può
più di simili mezzucci per richiamare il pubblico
più vasto. Ma ora non è così, perché
in questo caso il titolo della canzone esattamente era
“Una donna per amico”. «E vabbè
- direte voi - cosa mai potrà cambiare una O al
posto della A?».
Tutto.
Nella
O di amico c’è la grazia, l'intelligenza,
l'ironia, la profondità, l’esprit de finesse
e mille storie sorprendenti che si intrecciano: il gioco
dei ruoli, il cambio di sesso, il sapore dell’avventura,
la commedia che apre a un mondo diverso ma fatto di sesso...
Ma questa è un'altra canzone.
Nella
A di amica intuiamo invece l'annosa, triste, banalissima
questione della possibilità o meno che possa esistere
un’amicizia vera priva di sottointesi sessuali tra
un uomo e una donna; cioè la chiacchiera da ombrellone,
il test sulle riviste femminili, il pettegolezzo da ufficio.
Nella
O ritroviamo Mogol e Battisti.
Nella
A Veronesi e Chiti.
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La preterizione (1)
Questa
rubrica non prevede stroncature ma analisi, suggestioni,
phatos, emozioni. In una parola la vita nuova che un film
o anche singolo movimento di macchina riesce a suscitare.
Quindi avendo assistito a “Sotto
una buona stella”, non scriveremo
ciò che istintivamente vorremmo scrivere; e cioè
che se Kurtz in “Cuore
di tenebra" moriva” pronunciando
in un rantolo: «L’orrore! L’orrore!»,
il povero spettatore che ha avuto la sventura di assistere
all’ultimo film di Carlo Verdone cosa dovrebbe dire?
È il male cinematografico, la banalità fatta
carne, la bestemmia della parola recitazione (i due figli
giovani soprattutto), il motivo per cui questo Paese non
si riprenderà più; l’assenza totale
di ironia, il grottesco trionfo del politicamente corretto,
l’incapacità di scrivere una storia, il conformismo
osceno, il nulla morale.
Maledetto
Conrad ci hai rubato la battuta…
No,
scriveremo di come il film, campione d’incassi,
risulti meno incisivo dal punto di vista strettamente
comico e di come la recente produzione di Verdone assomigli
sempre di più, per struttura e fattura, agli ultimi
film diretti e interpretati da Albero Sordi.
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ELOGIO DELLA SCONFITTA
Un microfono in primo piano, stagliato sul nulla. Rumori
di fondo appena percettibili.
Secondi interminabili di sospensione. Speranza, delusione,
gloria, successo, sconfitta, baratro, amore. Tutto può
ancora accadere, tutto è possibile: è la
vita colta un attimo prima che si compia, quando la possibilità
si sta fondendo col destino per determinare il futuro
delle persone. Poi l’inquadratura si allarga e il
cantante folk comincia a cantare la sua ballata sugli
impiccati.
È l'inizio dell' ultimo film dei fratelli Cohen:
una lirica struggente sull'elogio della sconfitta. Il
protagonista cerca la sua strada nel mondo musicale armato
di una chitarra, di un gatto rosso, della sua determinazione
e del suo talento. Non servirà. Alla fine del viaggio
avrà fallito su tutti i fronti: come cantante,
come marinaio (il suo vero lavoro) e come uomo. L’unico
riscatto sarà quello di averci provato fino in
fondo.
Magnifico, poetico,
senza retorica e senza catarsi.
“A
proposito di Davis” è un
pugno nello stomaco sferrato con dolcezza.
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CINEMA DE SINISTRA
“Smetto
quando voglio”: il generone romano
alla riscossa. Autoreferenziale, autocompiaciuto, “de
sinistra” quanto basta, trascina un’ideuzza
per due ore fino all’autocombustione. Recitazione
insostenibile tutta rigorosamente in romanesco (spiccano
su tutti il protagonista e i due benzinai che parlano
in latino), regia… Non si può chiamare regia,
ma categoria scopiazzatura casereccia di sottoprodotti
americani.
Senza
stile, senza idee, non fa ridere, non fa piangere. Imbarazzante
al limite dello spaventoso e per questo grande successo.
L’orrore
è un genere che tira.
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CERCASI ATTRICE DISPERATAMENTE
Judy Dench in “Philomena”
e Kate Blanchett in “Blue
Jasmine”: uno spettacolo nello spettacolo.
Non recitano, sono i loro personaggi. Le loro nevrosi,
i loro pianti, la loro ingenuità, i loro cambiamenti
d'umore, i soliloqui, la dolcezza, la perfidia sono quelli
di un documentario girato con la camera nascosta. Non
un grammo di compiacimento, non un'ombra di artificio.
Vivono e lo spettatore vive con loro aldilà del
film, aldilà della sceneggiatura, aldilà
della storia.
In Italia non esiste nessuna attrice in grado di sostenere
simili performance. Ingessate, manieriste, didascaliche,
non conoscono l'intensità, non si lasciano andare
al talento. Perché non ne hanno. Il loro scopo
è avere una buona critica sul giornale, compiacere
i gruppi di potere culturale, non far fare brutta figura
a papà o al fidanzato. Non recitano, fingono e
i loro personaggi non sono credibili se non per le farsacce
e i cine panettoni. E forse nemmeno per quelli.
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FLASHBACK
Nell’ultimo
film di Woody Allen “Blue
Jasmine” si avverte l’esigenza
del regista di andare aldilà della storia che sta
raccontando, di raggiungere l’essenza narrativa.
Una verità di racconto, non la verità del
racconto. Nessun orpello, effetti speciali, trucchi o
giochi di prestigio. Un cinema puro, in grado di sostenere
senza retorica e senza catarsi, la disillusione dell’amore
e i suoi derivati.
Un esempio: il film è pieno di flashback in cui
si alternano la vita della protagonista come era ieri
e come è oggi. Bene, questi flashback non sono
introdotti da dissolvenze incrociate, effetti, nebbia,
bianco e nero, o altro. Le immagini si susseguono come
se il tempo avesse un’unica dimensione. Probabilmente
all’inizio lo spettatore rimane disorientato ma
in breve entra all’interno della storia, anzi all’interno
della psiche di Jasmine e vive insieme a lei, come in
un flusso di coscienza, la sua scalata sociale, la sua
disinvoltura morale, la sua fragilità, la sua perfidia,
la sua rivincita e la sua definitiva sconfitta.
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L’obiettivo, piccolo piccolo, di
questa rubrica è di parlare di cinema (a volte
teatro), non in maniera critica, partigiana, asettica
ma nell’unico modo per cui il cinema e l’arte
in generale hanno senso: il loro riflesso nella vita quotidiana.
A un certo punto basta con queste recensioni da cinetalpe,
tutte tramine, luoghi comuni, appartenenza («a me
piace Leone, io odio Tarantino») che hanno affossato
la critica cinematografica a rango di compitino per studenti
fuori corso e ucciso il senso stesso della fruizione cinematografica.
Il cinema non è vedere mille film al giorno davanti
al computer e saper rispondere alle domandine dei quiz.
Il cinema è sangue, sudore, gioia, angoscia, pensiero
e vita. La vita che si trasforma dopo due ore passate
nel vuoto mistico della sala cinematografica.
Per esempio “Lunch Box”: qual è la
scena più inquietante e, tutto sommato devastante,
di questa commedia indiana girata con stile, grazia e
poco ritmo?
Quando il protagonista, un impiegato prossimo alla pensione,
dopo essersi fatto bello per andare a un appuntamento
con una misteriosa donna che non conosce, sta per varcare
il portone, si accorge di non essersi rasato perfettamente
e torna a casa per rimediare all’imperfezione. Entra
nel bagno, prende il rasoio e… Riconosce l'odore
tipico del nonno ottantenne, quell'odore acre, stantio,
rancido di urina inutilmente ingentilito dall'acqua di
colonia. Solo che il nonno è morto.
E allora? E allora la vecchiaia non è muscoli flosci,
rughe, acciacchi, tumori, protesi, demenza; la vecchiaia
è odore, emanazione di sé che diventa puzza.
Questo è il punto: il momento esatto in cui il
cinema (“Lunch Box” nello specifico), lascia
la pellicola e diventa parte della coscienza.
Il cinema può essere anche utile perché
gli ultra cinquantenni che avranno visto il film la prossima
volta che avranno un appuntamento amoroso in una camera
di albergo, non si scorderanno di presentarsi in tiro,
belli, atletici, ben vestiti, profumati che quando le
cameriere passeranno per rifare la stanza penseranno a
una coppia di trentenni…
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Al
tavolo di una trattoria romana molto ben frequentata la
conversazione tra una donna e un uomo inevitabilmente
vira su «l’ultimo film che hai visto»:
“Il passato” di Asghar Farhadi. Un film iraniano
cupo, ambientato in Francia. Un involucro giallo (perché
la moglie di uno dei protagonisti ha tentato il suicidio?),
per descrivere con minuzia da entomologo la disgregazione
della vita di coppia e il male che da essa può
generare, nei secoli dei secoli. Il regista sottolinea
il disfacimento sentimentale con uno stile asciutto, un
montaggio nervoso e una luce livida.
Lei, posato il calice di vino spiega però come
in fondo il film sia portatore di un messaggio di speranza,
con quel finale aperto in cui la figlia torna dalla madre
e chissà… Lui si agita e si chiede come sia
possibile, in un’opera in cui tutti i protagonisti
(donne, uomini, ragazzi e bambini), sono vittime e carnefici
di un’esistenza fondata sul rancore d’amore,
trovare lo spazio per un caramelloso finale aperto. È
questo il potere magico del cinema: l’osmosi. La
fantasia diventa realtà e nelle ore successive
alla proiezione ci si ritrova per induzione maieutica
a rivivere le stesse dinamiche a cui si è appena
assistito nella finzione.
La cena finisce nel silenzio e nella tensione. I due escono
separatamente dal locale, rabbuiati nel volto. Sembrano
i protagonisti del film appena visto. Lui è in
macchina. Ma non parte. La sta aspettando?
Finale aperto... |
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Jobs,
Zuckeberg, Assange… Manca solo Bill Gates. Escono
a grappoli biografie cinematografiche sui personaggi contemporanei
che hanno cambiato il mondo. Ottime (“The Social Network”),
confuse (“Il quinto potere”), irrisolte (“Jobs”),
tutte hanno un dato comune fondamentale: non sono agiografie.
“Jobs” caracolla, è fruttariano, stronzo
ed è solo. Zukerberg è uno sfigato potenzialmente
autistico, Assange si comporta come un invasato, non sa
cosa sia la riconoscenza e nel suo delirio ossessivo ha
l’aura del serial killer. Quanto più un personaggio
devia rispetto alla sua immagine pubblica, tanto più
sarà interessante, stimolante, controverso e appassionante
per il pubblico. Non è una questione di correttezza
storica o di deontologia professionale. È il profitto
della verità.
In Italia non è
possibile. Vigono non scritte due leggi insormontabili:
l’appartenenza e il conformismo. L’appartenenza
fodera gli occhi e porta a visioni ideologiche precostituite
(o predigerite); il conformismo all’appiattimento
sull’immaginario dominante.
E quindi o si celebrano
ridicoli santini (le fiction biografiche televisive),
oppure si tace.
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Un
carrello avanza lento e solenne dentro un boulevard di Parigi.
L'inquadratura è ampia, il movimento è costante
e solenne. È l'amore stabile, la vita di coppia,
un matrimonio con 300 invitati, il sesso sicuro, la solitudine
combattuta con l’abitudine, la tranquillità
dei tradimenti condivisi, la programmazione della vecchiaia,
la scelta dell'abito per la bara. Eppure una strana luce,
giallina ma scura, pervade questo viale. Le due fila di
alberi sono nere, sembrano sagome stilizzate di figure umane
dipinte da un espressionista. Forse è il crepuscolo,
sicuramente si sentono in lontananza i tuoni dei fulmini.
L'insieme non appare più così rassicurante,
la vita non così tranquilla, il sentimento comincia
a farsi inquieto, le certezze si incrinano: la noia del
volersi bene, il vuoto del vivere insieme, la follia dell'
assenza di emozioni. L'ambiente circostante ormai si è
fatto spettrale, bisogna scappare, dare una sterzata alla
propria esistenza, cercare riparo in un mondo qualsiasi,
basta che non sia questo!
La carrellata, seguendo questo impulso esistenziale svolta
dolcemente ma con decisione verso destra, supera gli alberi,
attraversa la strada e si avvicina all'unico luogo dove
la fuga è possibile e in cui è consentito
ricominciare una vita finalmente libera e senza scrupoli:
il teatro.
E l'inizio dell'ultimo lavoro di Roman Polanski “La
Venere in pelliccia”. Ed è
la scena più bella del film. |
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Li
vedi sfilare col cappello, con la sciarpa, con le scarpe
a punta di vernice. In mano hanno lo smart phone e in tasca
la Feltrinelli card. Sono i nuovi sfigati.
Scambiano quella grande sagra paesana che è il festival
de noantri del cinema di Roma per la serata degli Oscar
e camminano felici e eccitati sul tappeto rosso dell’Auditorium.
Le loro foto postate su Facebook le riconosci: un primo
piano col sorriso buono, il tappeto sdrucito e il vuoto,
desolante vuoto alle spalle. Alcuni si sentono i “reggisti”
di domani. Di solito hanno alle spalle un cortometraggio
girato rubando le idee a qualcuno, non pagando la maestranza
e sono figli di...
Occupano teatri, Amano il cinema, sono lì per questo,
ma quando entrano in sala si annoiano e escono dopo 15 minuti
e vanno a casa a vedersi un film scaricato gratis. |
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