OCCHI LIQUIDI

Se racconti una storia d’amore, non puoi seguire logiche temporali. Non esiste la contemporaneità: il passato si mescola al presente che proietta di sé l’immagine nel futuro. La narrazione non deve avere punti di riferimento razionali causa/effetto.
Non ti piacciono i tatuaggi? Ne scoprirai uno a forma di fiocco sul dorso della donna della tua vita e non potrai più farne a meno.
Sogni una bella casa comoda, tecnologica e il tuo uomo vive in una roulotte? Non farai storie e quella roulotte sarà il tuo regno. Una storia d’amore si racconta con gli occhi. Chi ha avuto la fortuna di vederli li riconosce subito, gli occhi liquidi di una donna innamorata. È una luce particolare, velata, che dona allo sguardo una profondità ultraterrena che ti entra dentro, bypassa il cervello e arriva diretta al cuore. E chi ha avuto la fortuna di vederli, riconosce subito quando la luce non c’è più. Lo sguardo diventa trasparente, l’occhio vitreo e l’angolo della bocca s’increspa in un sorriso che sembra una smorfia.
Ma un sentimento così intenso non finisce mai, a meno che il destino si scateni e uccida il figlio con un tumore devastante. Allora non c’è salvezza, tutto è finito, vince la morte, l’abbandono e nulla ha più senso.
L’amore sarà solo l’ultimo barlume di vita tatuato sul corpo prima di suicidarsi.

Il film è “Alabama Monroe - Una storia d'amore (The Broken Circle Breakdown)”, l’attrice dagli occhi liquidi si chiama Veerle Baetens.

QUESTIONE DI STILE

Devil’s Knot”, un episodio di cronaca particolarmente efferato: tre bambini vengono uccisi in un bosco. La comunità è sconvolta, c’è bisogno dei colpevoli. E i colpevoli vengono trovati e condannati. Ma sono innocenti e allora le vittime diventano sei…

Assenza di ritmo, atmosfere sospese, recitazione sobria, regia distaccata, volutamente distaccata. Il fatto di cronaca si analizza tangenzialmente osservando con la lente dell’entomologo i comportamenti umani dei personaggi invischiati nella storia: i genitori, i ragazzi, lo sceriffo, la comunità e chi nella comunità non è omologato. Nessuna scena madre, nessun momento di tensione tipico del genere. Gli snodi narrativi avvengono non attraverso invenzioni di sceneggiatura, ma con semplici didascalie.

È la conferma di uno stile freddo, non attrattivo, atono e inquietante. Una costante del cinema di Atom Egoyan. Uno stile che nelle espressioni migliori come “Il dolce domani” suscita sgomento e inquietudine e in quelle peggiori come nel caso di “Devil’s knot” irritazione e indifferenza.


PRONTUARIO DEL CRITICO CINEMATOGRAFICO MODERNO:
LA RECENSIONE

Prendete un film, qualunque: d’autore, trash, giallo, panettone, blockbuster. Eventualmente guardatelo, ma non è necessario. Fatevi dare la cartellina stampa dalla casa di produzione. Copiate la trama che non ve la ricordate o che avete delle difficoltà a riassumere, leggete le intenzioni del regista e mettetele come cappello iniziale.
Proseguite con delle considerazioni ordinarie sulla fotografia, sugli attori o sulla sceneggiatura tipo:
«buchi di sceneggiatura»
«prova particolarmente ispirata»
«in un elegante bianco e nero»
«film scritto bene»

Fate un parallelo per analogia o per contrasto con le opere precedenti dell’autore (sempre facilmente reperibile nella cartellina):
«Ancora si sentono gli echi del precedente»
«È un punto di svolta della carriera del regista»

Finite con delle considerazioni possibilmente ambivalenti:
«Talmente finto da sembrare vero (è valido anche al contrario)»
«Non ci si annoia, ma questo non è cinema»
«Contorto ma in fondo lineare».

Questa è la struttura base sulla quale è necessario, per dare spessore culturale, richiamare sempre a qualche altro regista aggettivando: Kubrikiano, Morettiano, Hitchcockiano. Più la lettura della parola risulta complicata, più verrà considerata profonda. Per esempio: Inarrituiano.

Ultima cosa, per rispettare il politicamente corretto e al contempo andare incontro al lettore, ricorrere alla descrizione del film attraverso un aggettivo in codice come:
RIGOROSO (mattone),
ONESTO (modesto ma conosco il regista),
VOLGARE (si ride).

Per concludere si consiglia l’uso ricorrente delle locuzioni:
«Non è un capolavoro» (vi preserva dalle cantonate)
«È un omaggio a…» ( quando non sapete dove andare a parare).

Prossima puntata: la Stroncatura

Capitolo secondo: NO TAV

Le ragazze di Lars Von Trier iniziano la loro educazione sentimentale facendo una scommessa: chi rimorchierà di più durante un viaggio in treno, vincerà un pacchetto di caramelle.

Ecco, tutto questo ai tempi dell’alta velocità non sarebbe possibile. Quegli ampi scompartimenti a sei posti con le poltrone in finta pelle reclinabili dove si è costretti a guardarsi negli occhi e a eludere o compiacere gli sguardi in un gioco di seduzione magnetica e sensuale, non esistono più. I corridoi oggi sono tra due file di posti a sedere e quelle camminate eccitate e febbrili del film risulterebbero complicate.

I bagni poi non sono più in fondo al vagone, grandi, sporchi, maleodoranti e… Comodi. Sono raddoppiati nel numero e dimezzati nelle dimensioni. Ma anche se per qualche fortunata coincidenza si riuscisse a concupire qualcuno, attraversare il corridoio, entrare nel bagno senza dare nell’occhio, nel bel mezzo della battaglia erotica arriverebbe il solerte addetto alle pulizie (mai esistito nei tempi che furono), che col passepartout senza bussare, aprirebbe la porta...

Con l’alta velocità si può fare di tutto, tranne che amare.

E Lars Von Trier è decisamente un regista no tav.

PROSSIMAMENTE – LE MERAVIGLIE

Quando il cinema si vedeva al cinema si chiamavano Prossimamente. Ora si chiamano Trailer. Sono la fortuna del film aldilà del valore del film stesso: se fatti bene valgono mezzo biglietto staccato. Per stabilire una scala di valori, invece di elaborati teorici, meglio essere empirici e prendere come riferimenti il meglio e il peggio degli ultimi anni.
Il meglio: il trailer di “Il cavaliere oscuro - Il ritorno”. Affascinante, misterioso, perfettamente montato su una musica incalzante senza descrivere troppo la storia (un errore costante è quello di raccontare la trama del film al punto da dare l’impressione di averlo già visto), si coglie l’ambizione di fare qualcosa di più di un fumettone; si percepiscono echi orwelliani e inquietudini esistenziali pur mantenendo viva e presente la cifra spettacolare.
Risultato: il target si allarga. Oltre ai fan abituali, si attirano spettatori non consoni al prodotto.
Il peggio: il trailer di “Le meraviglie”. Si comincia su una disquisizione sulla cacca. Voluta - certo - sono dei bambini che ne parlano, naif, familiare ma pur sempre cacca. Poi in un’atmosfera un po’ arcadia, un po’ montanara (o campagnola), si percepisce l’esistenza di una famiglia felice. E da cosa verrà turbata questa felicità? Dalla televisione, sembra. Una bambina canta e vuole partecipare a un talent. E poi la terra, le api, lo strano linguaggio del padre, la bambina che canta una canzone pop che diventa la colonna sonora delle immagini. Un trailer decisamente, intellettualmente, anti attrattivo.
Risultato: il target si restringe. I fan abituali dei filmetti italiani con pretese artistiche storcono il naso di fronte alla sgradevolezza delle immagini e al tema già mille volte affrontato (televisione=modernità corruttrice), gli spettatori non consoni al prodotto saranno contenti di restare tali.

SLALOM PARALLELO - IL MONOLOGO

Sei bravo sul lavoro, sei un padre esemplare adorato dai figli, ami tua moglie, non fai mancare nulla alla tua famiglia né affetto né beni, sei buono, sei giusto, ti comporti secondo coscienza, rispetti te stesso, il prossimo e non fai male a nessuno. Tutto inutile.

Alla prima debolezza che manifesterai il destino (una donna probabilmente…) ti annienterà minando la tua sicurezza e rubandoti la serenità, il lavoro, la vita. È la parabola amara e misogina di “Locke”, l’ultimo film di Steven Knight che segna la nascita di un nuovo genere: il monologo cinematografico.

In scena ci sono un attore, un’automobile, un cellulare, un’autostrada e le luci della notte. Ed è solo attraverso la combinazione di questi elementi che prende corpo un giallo iperrealista, nel quale la vita pulsa fortissima, incontenibile e amorale. L’uomo che guida la macchina verso l’ospedale - per un miracolo di regia e d’interpretazione - riesce a racchiudere in sé quel mondo enorme e piccolissimo che è l’esistenza sentimentale quotidiana: la famiglia, il lavoro, il tradimento, il sesso, l’amicizia, il senso del dovere, l’amore, il non amore, il calcio, il fantasma del padre, la pace, la guerra, la morte, la rinascita.

VERSIONE ORIGINALE

Il ricatto” è un thriller catalano. Bei titoli di testa, un buon inizio: un pianista è chiamato a fare un concerto dopo cinque anni dal suo ritiro dalle scene. La sala si riempie piano piano, lui è molto teso, entra in scena, gli sudano le mani e poco dopo comincia il concerto. A un certo punto sullo spartito appare una scritta minacciosa e attraverso un auricolare il pianista viene minacciato e ricattato in diretta. Da qui in avanti si assiste al crollo verticale della tensione.

E non per la storia di per sé ai limiti della credibilità, ma per quello che ormai è il più grande problema del cinema non italiano: il doppiaggio. La voce dell’assassino è comme il faut: flautata, profonda, impostata, pause giuste da rimorchione, crescendo modulato.
In una parola falsa. In due parole: falsa e ridicola.

La tensione si ammoscia, il giallo diventa farsa involontaria e addio al film. La casta dei doppiatori italiani – presuntuosi e spocchiosi -, è incapace di auto giudicarsi.
Non c’è mestiere, non c’è tecnica, non c’è capacità: è evidente che la selezione delle voci viene fatta in base al nome di famiglia, o per qualunque fattore che non sia il talento. Il risultato è la diacronia che si sviluppa nel rapporto tra immagine e dialogo. I blockbuster doppiati trasformano la straripante fantasia artigianale dei plot in storie incredibili nel senso letterale del termine: non credibili; i film d’autore diventano stranianti esercizi di cinema surreale.

Ormai vedere i film in lingua originale con sottotitoli non è più il vezzo dell’intellettuale, ma la necessità vitale di qualsiasi spettatore.

I MAGNIFICI 7

Una domenica di aprile. La primavera appena sbocciata. Gonnelline, muscoli, i carnai e l’orrido mare a portata di mano. Roma si svuota. Ma i magnifici sette restano in città a difendere l’onore del cinema. Ore 16,30 al Filmstudio (storica sala d’essai dietro il carcere di Regina Coeli), proiettano “Karamazovi” (“I fratelli Karamazov”). In platea sono in sette: una coppia matura, tre single (due maschi e una femmina) e, intrufolatisi all’ultimo momento, due fidanzatini. Aleggia un po’ di tensione. Si teme il mattone. Sin dalle prime scene però i dubbi si dissolvono: il film è strepitoso e tanto basta. Gli attori perfetti, forti, intensi; la regia nervosa ma fluida rende leggero lo sviluppo narrativo; la musica una lama di rasoio. Un’ora e cinquanta minuti tosti, incalzanti, avvincenti. È Dostoevskij: l’anima è fatta a pezzi, il bene e il male si mescolano, dio esiste ma è cattivo e spietato. Teatro, cinema, letteratura, politica e sentimento si fondono in questo piccolo grande film di Petr Zelenka. Ma la sala è vuota. Dove sono tutti i fighetti del Festival di Cinema di Roma? Dove tutti gli amanti del cinema che si scaricano i film sul computer? E quelli che occupano i luoghi pubblici in nome della cultura? Dove stanno, a mangiare il cocomero? Ma non è ancora tempo, sono acerbi!

I magnifici sette escono dalla sala dopo essersi spillati fino all’ultimo titolo di coda. L’onore è salvo anche se la battaglia è persa: i cinema presto chiuderanno tutti. Ma almeno loro sono diventati più ricchi.

IL GHIGNO

Il documentario “Quando c’era Berlinguer” (ben fatto, commovente per i nostalgici, informativo per gli agnostici, consolante per gli antagonisti), spinge a una riflessione che va oltre lo specifico filmico ed entra in quello politico.
Tu Alberto Franceschini che parli da una terrazza romana, elevato al rango di testimone del clima politico di quel tempo e addirittura al rango di storico, uno che la storia l’ha fatta in prima persona, a un certo punto sostieni che l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta, ha centrato l’obiettivo: far cadere il compromesso storico. Da via Caetani in poi quel progetto non sarà più possibile, la coesistenza tra le due anime del Paese è morta per sempre. E lo sottolinei con un ghigno o comunque un lampo di soddisfazione sul volto. Tra un’Italia riformista e una rivoluzionaria, tu avevi scelto. E quella scelta l’hai portata fino in fondo. Sarai contento di aver consegnato, con questa lucida e spietata visione del futuro il mondo nelle mani del consumismo più spinto, del quale si vedono i riflessi nei tuoi occhialetti di marca.

Da Berlinguer al berlusconismo, il passo è stato assai breve. E la tua lotta, i morti, la sofferenza, le famiglie distrutte, il dolore fisico e morale che hai scientemente seminato sull’onda di un’idea trasformata in risentimento e odio freddo, hanno avuto come risultato un Paese dominato dal profitto, dal narcotraffico e dal desiderio violento di possesso (uomini-donne-oggetti-corpi), dove l’unica cosa che manca e che non si può comprare o desiderare è l’idea che siamo uguali e che il denaro non conta, ma conta la felicità.
Perché tu, Franceschini, hai trasformato la felicità di sperare in un mondo migliore in legge di natura, dove vince sempre il più forte.
Quello che spara ammazza e ride soddisfatto.

Capitolo primo: IL MANIFESTO

Esperimento di critica trans-cinematografica.

Oggetto: “Nhymphomaniac”.
Primo step: critica pregiudiziale.
Non i soliti pregiudizi di appartenenza: destra o sinistra, omo o etero, chic o cheap. Si giudica il film senza vederlo, ma analizzando un elemento che in qualche modo lo contraddistingua. In questo caso il manifesto. Attraente, ben fatto, graficamente pulito ed efficace: sotto un logo stilizzato, due parentesi tonde che evidentemente rappresentano l’organo genitale femminile, sono riprodotte nove caselle in fila per tre, al cui interno viene rappresentato il volto degli attori colto all’acme del piacere. Le espressioni differiscono l’una dall’altra e dipingono il carattere dei personaggi: Stellan Skargaard non ha sentimenti, il piacere brutale, la donna è solo uno strumento per raggiungerlo. Shia Labeouf fuma una sigaretta, sesso come necessità, ipercinetico, insoddisfatto, nevrotico fa quello che deve fare, senza passione, per sopravvivere. Uma Thurman sogna; non è il godimento urlato, liberatorio, è estasi, sentimento, vita; niente di materiale, orgasmo come puro spirito, rappresentazione divina.
Ma attenzione: finiti i ritratti del climax arriva come una sciabolata, prima del casting, una scritta che rivela l’antilirismo poetico di Lars Von Trier: “Forget about Love”. Scordatevi dell’amore. Scordatevi di tutte le immagini con cui vi hanno bombardato e liquefatto il cervello: i tramonti sul mare, i baci perugina, il romanticismo da operetta, le chiacchiere sull’amore, le eterne promesse, il cuore, gli occhi languidi. Tutta paccottiglia. Scordatevi dell’amore come ingenuamente e forse furbescamente lo avete sempre pensato.
Questo è il vero amore: l’orgasmo. Non esiste nient’altro.
E se qualcuno ve li fa provare, tenetevelo stretto.

SAVING MISTER FREUD

Oggi parliamo di quel tarlo che sta, piano piano sgretolando l’arte, la società, il sesso, la vita stessa: il meccanicismo psicologico. Prendiamo come spunto “Saving Mr. Banks”, film peraltro riuscito nel suo intento evocativo di riattivare le sinapsi dell’infanzia, per crogiolarsi in una malinconia travestita da felicità. La struttura narrativa dell’opera si basa su un montaggio parallelo tra la vita della scrittrice Pamela Travers da bambina (in particolare il rapporto col padre) e la vita da adulta ripresa durante il contrasto avuto con Walt Disney circa la cessione dei diritti d’autore del romanzo “Mary Poppins”. Tutto è direttamente conseguente: il passato trova preciso, addirittura scientifico, riscontro nel presente. Lo stesso capita a Walt Disney la cui ostinazione, si scopre alla fine, deriva dalle cinghiate che l’amato genitore gli rifilava da piccolo.
È la banalizzazione dei processi mentali ridotti a una mera pratica di causa effetto.
Una sorta di razionalizzazione dell’inconscio (un ossimoro).
Uno “psicanalismo” da talk show, dove la colpa di qualsiasi comportamento la ritrovi nel rapporto col padre o con la madre. E se lo pratichi sotto l’ombrellone per lamentarti del capoufficio o in televisione davanti a un plastico per giustificare un uxoricidio, poco male. Ma al cinema, nell’arte e nella vita equivale ad affossare l’imprevedibilità, ottundere la creatività, soffocare lo spirito libero e uccidere l’amore.
In un mondo dominato dal meccanicismo psicologico Picasso, Fellini e Beckett farebbero i commessi da Ikea.

NERVI TESI

Superando il tedioso mi piace non mi piace (non ti piace la grande bellezza? Esticazzi!) un criterio con cui valutare un film può essere quello delle sensazioni suscitate. Rabbia, affinità, bellezza, emozione, profondità, riso. Ma anche sonno (cosa c’è di più bello, salutare e appagante di addormentarsi dolcemente in una comoda poltrona? ), malessere e irritazione. Sono tutti stati d’animo che solo la maieutica del cinema riesce a tirare fuori.

Lei” per esempio è il classico prodotto urticante e fastidioso, che induce a porgersi la domanda: Perché sono cosi irritato? E qualsiasi film che mette in moto il cervello è di per sé un film riuscito.

Perché dunque? Nella confezione allestita dall’autore Spike Jonze forse c’è già la risposta: plot alla camomilla ma ben congegnato, fotografia esemplare, metafore chiare: l’uomo non può amare che se stesso, o al massimo una proiezione di sé e in un mondo ultrachattologico il suo destino sarà la solitudine. Ecco, nel continuo, un po’ stucchevole, riflettere del personaggio sull’amore e sulla incomunicabilità dei sentimenti manca l’elemento essenziale: la vita. Non si palpita, non c’è passione, non si ride, non si lotta. È tutto dato, tutto molto intelligente, tutto perfettamente laccato ma una storia, una qualsiasi storia (l’uomo che si innamora della macchina a dir la verità è vecchia come il cucco) ha bisogno di sangue, nervi, cuore, cervello e anche se non esiste anima.

E invece il regista sembra masturbarsi sulla perfetta luce degli ambienti, sui colori pastello delle camicie, sul controllo della macchina da presa, sui pantaloni a vita alta del protagonista (doveva lanciare una collezione?) e trasforma quindi l’amore, il motore del mondo, in materia di supporto, inerte.

Si esce dalla sala molto innervositi e quindi soddisfatti della riuscita del film.

CINEMA DI GENERE

Esce in questi giorni nelle sale “Una donna per amica”. Si dirà: «Che noia questo espediente del titolo copiato di pari passo da una canzone di successo, da “Sapore di mare” a “Notte prima degli esami”». Obiettivamente non se ne può più di simili mezzucci per richiamare il pubblico più vasto. Ma ora non è così, perché in questo caso il titolo della canzone esattamente era “Una donna per amico”. «E vabbè - direte voi - cosa mai potrà cambiare una O al posto della A?».

Tutto.

Nella O di amico c’è la grazia, l'intelligenza, l'ironia, la profondità, l’esprit de finesse e mille storie sorprendenti che si intrecciano: il gioco dei ruoli, il cambio di sesso, il sapore dell’avventura, la commedia che apre a un mondo diverso ma fatto di sesso... Ma questa è un'altra canzone.

Nella A di amica intuiamo invece l'annosa, triste, banalissima questione della possibilità o meno che possa esistere un’amicizia vera priva di sottointesi sessuali tra un uomo e una donna; cioè la chiacchiera da ombrellone, il test sulle riviste femminili, il pettegolezzo da ufficio.

Nella O ritroviamo Mogol e Battisti.

Nella A Veronesi e Chiti.

La preterizione (1)

Questa rubrica non prevede stroncature ma analisi, suggestioni, phatos, emozioni. In una parola la vita nuova che un film o anche singolo movimento di macchina riesce a suscitare. Quindi avendo assistito a “Sotto una buona stella”, non scriveremo ciò che istintivamente vorremmo scrivere; e cioè che se Kurtz in “Cuore di tenebra" moriva” pronunciando in un rantolo: «L’orrore! L’orrore!», il povero spettatore che ha avuto la sventura di assistere all’ultimo film di Carlo Verdone cosa dovrebbe dire? È il male cinematografico, la banalità fatta carne, la bestemmia della parola recitazione (i due figli giovani soprattutto), il motivo per cui questo Paese non si riprenderà più; l’assenza totale di ironia, il grottesco trionfo del politicamente corretto, l’incapacità di scrivere una storia, il conformismo osceno, il nulla morale.

Maledetto Conrad ci hai rubato la battuta…

No, scriveremo di come il film, campione d’incassi, risulti meno incisivo dal punto di vista strettamente comico e di come la recente produzione di Verdone assomigli sempre di più, per struttura e fattura, agli ultimi film diretti e interpretati da Albero Sordi.

ELOGIO DELLA SCONFITTA

Un microfono in primo piano, stagliato sul nulla. Rumori di fondo appena percettibili.

Secondi interminabili di sospensione. Speranza, delusione, gloria, successo, sconfitta, baratro, amore. Tutto può ancora accadere, tutto è possibile: è la vita colta un attimo prima che si compia, quando la possibilità si sta fondendo col destino per determinare il futuro delle persone. Poi l’inquadratura si allarga e il cantante folk comincia a cantare la sua ballata sugli impiccati.
È l'inizio dell' ultimo film dei fratelli Cohen: una lirica struggente sull'elogio della sconfitta. Il protagonista cerca la sua strada nel mondo musicale armato di una chitarra, di un gatto rosso, della sua determinazione e del suo talento. Non servirà. Alla fine del viaggio avrà fallito su tutti i fronti: come cantante, come marinaio (il suo vero lavoro) e come uomo. L’unico riscatto sarà quello di averci provato fino in fondo.


Magnifico, poetico, senza retorica e senza catarsi.

A proposito di Davis” è un pugno nello stomaco sferrato con dolcezza.

CINEMA DE SINISTRA

Smetto quando voglio”: il generone romano alla riscossa. Autoreferenziale, autocompiaciuto, “de sinistra” quanto basta, trascina un’ideuzza per due ore fino all’autocombustione. Recitazione insostenibile tutta rigorosamente in romanesco (spiccano su tutti il protagonista e i due benzinai che parlano in latino), regia… Non si può chiamare regia, ma categoria scopiazzatura casereccia di sottoprodotti americani.
Senza stile, senza idee, non fa ridere, non fa piangere. Imbarazzante al limite dello spaventoso e per questo grande successo.

L’orrore è un genere che tira.

CERCASI ATTRICE DISPERATAMENTE
Judy Dench in “Philomena” e Kate Blanchett in “Blue Jasmine”: uno spettacolo nello spettacolo. Non recitano, sono i loro personaggi. Le loro nevrosi, i loro pianti, la loro ingenuità, i loro cambiamenti d'umore, i soliloqui, la dolcezza, la perfidia sono quelli di un documentario girato con la camera nascosta. Non un grammo di compiacimento, non un'ombra di artificio. Vivono e lo spettatore vive con loro aldilà del film, aldilà della sceneggiatura, aldilà della storia.
In Italia non esiste nessuna attrice in grado di sostenere simili performance. Ingessate, manieriste, didascaliche, non conoscono l'intensità, non si lasciano andare al talento. Perché non ne hanno. Il loro scopo è avere una buona critica sul giornale, compiacere i gruppi di potere culturale, non far fare brutta figura a papà o al fidanzato. Non recitano, fingono e i loro personaggi non sono credibili se non per le farsacce e i cine panettoni. E forse nemmeno per quelli.

FLASHBACK

Nell’ultimo film di Woody Allen “Blue Jasmine” si avverte l’esigenza del regista di andare aldilà della storia che sta raccontando, di raggiungere l’essenza narrativa. Una verità di racconto, non la verità del racconto. Nessun orpello, effetti speciali, trucchi o giochi di prestigio. Un cinema puro, in grado di sostenere senza retorica e senza catarsi, la disillusione dell’amore e i suoi derivati.

Un esempio: il film è pieno di flashback in cui si alternano la vita della protagonista come era ieri e come è oggi. Bene, questi flashback non sono introdotti da dissolvenze incrociate, effetti, nebbia, bianco e nero, o altro. Le immagini si susseguono come se il tempo avesse un’unica dimensione. Probabilmente all’inizio lo spettatore rimane disorientato ma in breve entra all’interno della storia, anzi all’interno della psiche di Jasmine e vive insieme a lei, come in un flusso di coscienza, la sua scalata sociale, la sua disinvoltura morale, la sua fragilità, la sua perfidia, la sua rivincita e la sua definitiva sconfitta.

L’obiettivo, piccolo piccolo, di questa rubrica è di parlare di cinema (a volte teatro), non in maniera critica, partigiana, asettica ma nell’unico modo per cui il cinema e l’arte in generale hanno senso: il loro riflesso nella vita quotidiana.

A un certo punto basta con queste recensioni da cinetalpe, tutte tramine, luoghi comuni, appartenenza («a me piace Leone, io odio Tarantino») che hanno affossato la critica cinematografica a rango di compitino per studenti fuori corso e ucciso il senso stesso della fruizione cinematografica. Il cinema non è vedere mille film al giorno davanti al computer e saper rispondere alle domandine dei quiz. Il cinema è sangue, sudore, gioia, angoscia, pensiero e vita. La vita che si trasforma dopo due ore passate nel vuoto mistico della sala cinematografica.

Per esempio “Lunch Box”: qual è la scena più inquietante e, tutto sommato devastante, di questa commedia indiana girata con stile, grazia e poco ritmo?
Quando il protagonista, un impiegato prossimo alla pensione, dopo essersi fatto bello per andare a un appuntamento con una misteriosa donna che non conosce, sta per varcare il portone, si accorge di non essersi rasato perfettamente e torna a casa per rimediare all’imperfezione. Entra nel bagno, prende il rasoio e… Riconosce l'odore tipico del nonno ottantenne, quell'odore acre, stantio, rancido di urina inutilmente ingentilito dall'acqua di colonia. Solo che il nonno è morto.

E allora? E allora la vecchiaia non è muscoli flosci, rughe, acciacchi, tumori, protesi, demenza; la vecchiaia è odore, emanazione di sé che diventa puzza. Questo è il punto: il momento esatto in cui il cinema (“Lunch Box” nello specifico), lascia la pellicola e diventa parte della coscienza.

Il cinema può essere anche utile perché gli ultra cinquantenni che avranno visto il film la prossima volta che avranno un appuntamento amoroso in una camera di albergo, non si scorderanno di presentarsi in tiro, belli, atletici, ben vestiti, profumati che quando le cameriere passeranno per rifare la stanza penseranno a una coppia di trentenni…

Al tavolo di una trattoria romana molto ben frequentata la conversazione tra una donna e un uomo inevitabilmente vira su «l’ultimo film che hai visto»: “Il passato” di Asghar Farhadi. Un film iraniano cupo, ambientato in Francia. Un involucro giallo (perché la moglie di uno dei protagonisti ha tentato il suicidio?), per descrivere con minuzia da entomologo la disgregazione della vita di coppia e il male che da essa può generare, nei secoli dei secoli. Il regista sottolinea il disfacimento sentimentale con uno stile asciutto, un montaggio nervoso e una luce livida.

Lei, posato il calice di vino spiega però come in fondo il film sia portatore di un messaggio di speranza, con quel finale aperto in cui la figlia torna dalla madre e chissà… Lui si agita e si chiede come sia possibile, in un’opera in cui tutti i protagonisti (donne, uomini, ragazzi e bambini), sono vittime e carnefici di un’esistenza fondata sul rancore d’amore, trovare lo spazio per un caramelloso finale aperto. È questo il potere magico del cinema: l’osmosi. La fantasia diventa realtà e nelle ore successive alla proiezione ci si ritrova per induzione maieutica a rivivere le stesse dinamiche a cui si è appena assistito nella finzione.

La cena finisce nel silenzio e nella tensione. I due escono separatamente dal locale, rabbuiati nel volto. Sembrano i protagonisti del film appena visto. Lui è in macchina. Ma non parte. La sta aspettando?

Finale aperto...
Jobs, Zuckeberg, Assange… Manca solo Bill Gates. Escono a grappoli biografie cinematografiche sui personaggi contemporanei che hanno cambiato il mondo. Ottime (“The Social Network”), confuse (“Il quinto potere”), irrisolte (“Jobs”), tutte hanno un dato comune fondamentale: non sono agiografie. “Jobs” caracolla, è fruttariano, stronzo ed è solo. Zukerberg è uno sfigato potenzialmente autistico, Assange si comporta come un invasato, non sa cosa sia la riconoscenza e nel suo delirio ossessivo ha l’aura del serial killer. Quanto più un personaggio devia rispetto alla sua immagine pubblica, tanto più sarà interessante, stimolante, controverso e appassionante per il pubblico. Non è una questione di correttezza storica o di deontologia professionale. È il profitto della verità.

In Italia non è possibile. Vigono non scritte due leggi insormontabili: l’appartenenza e il conformismo. L’appartenenza fodera gli occhi e porta a visioni ideologiche precostituite (o predigerite); il conformismo all’appiattimento sull’immaginario dominante.

E quindi o si celebrano ridicoli santini (le fiction biografiche televisive), oppure si tace.

Un carrello avanza lento e solenne dentro un boulevard di Parigi. L'inquadratura è ampia, il movimento è costante e solenne. È l'amore stabile, la vita di coppia, un matrimonio con 300 invitati, il sesso sicuro, la solitudine combattuta con l’abitudine, la tranquillità dei tradimenti condivisi, la programmazione della vecchiaia, la scelta dell'abito per la bara. Eppure una strana luce, giallina ma scura, pervade questo viale. Le due fila di alberi sono nere, sembrano sagome stilizzate di figure umane dipinte da un espressionista. Forse è il crepuscolo, sicuramente si sentono in lontananza i tuoni dei fulmini.
L'insieme non appare più così rassicurante, la vita non così tranquilla, il sentimento comincia a farsi inquieto, le certezze si incrinano: la noia del volersi bene, il vuoto del vivere insieme, la follia dell' assenza di emozioni. L'ambiente circostante ormai si è fatto spettrale, bisogna scappare, dare una sterzata alla propria esistenza, cercare riparo in un mondo qualsiasi, basta che non sia questo!
La carrellata, seguendo questo impulso esistenziale svolta dolcemente ma con decisione verso destra, supera gli alberi, attraversa la strada e si avvicina all'unico luogo dove la fuga è possibile e in cui è consentito ricominciare una vita finalmente libera e senza scrupoli: il teatro.
E l'inizio dell'ultimo lavoro di Roman Polanski “La Venere in pelliccia”. Ed è la scena più bella del film.
Li vedi sfilare col cappello, con la sciarpa, con le scarpe a punta di vernice. In mano hanno lo smart phone e in tasca la Feltrinelli card. Sono i nuovi sfigati.

Scambiano quella grande sagra paesana che è il festival de noantri del cinema di Roma per la serata degli Oscar e camminano felici e eccitati sul tappeto rosso dell’Auditorium. Le loro foto postate su Facebook le riconosci: un primo piano col sorriso buono, il tappeto sdrucito e il vuoto, desolante vuoto alle spalle. Alcuni si sentono i “reggisti” di domani. Di solito hanno alle spalle un cortometraggio girato rubando le idee a qualcuno, non pagando la maestranza e sono figli di...

Occupano teatri, Amano il cinema, sono lì per questo, ma quando entrano in sala si annoiano e escono dopo 15 minuti e vanno a casa a vedersi un film scaricato gratis.