Fahrenheit
9/11: "Il grido" di Michael Moore
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[matteo
lenzi] |
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Alla
fine dei conti si è rivelato la più grossa
spina nel fianco di George “W”. Ma non è
un terrorista, né un magnate dell'informazione.
Solo un tranquillo, caparbio "rivoluzionario".
"Le
guerre sono fatte per non finire mai". L'orrore
è fatto per non finire mai. Michael Moore ne
è ben consapevole, e vuole gridarlo, farlo sapere
a tutti. Non è un politico, perlomeno
non nel senso tecnico del termine; è solo un
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"animale politico",
ovvero ciò che dovremmo essere tutti e che, non sempre
in buona fede, ci scordiamo spesso di essere. È anche
un regista, un "uomo d'arte", una bella faccia tosta,
di quelle che odi o ami. In qualche tratto ricorda Peter Jackson
(Il Signore degli Anelli), che
ha raggiunto la fama per un'opera apparentemente molto diversa
da quelle di Moore. Eppure, a ben guardare, può sovvenire
una strana idea: che in realtà entrambi vedano lo stesso
mondo (il nostro) nello stesso modo, tanto che l'uno ha pensato
bene di crearsene uno tutto suo; l'altro, per arrivare allo
stesso risultato, ha preferito usare una bella lente d'ingrandimento
da 16 mm e cercare di capire dov'è il guasto. Così
facendo ha messo il dito su un certo numero di piaghe che affliggono
l'America (ma è la contingenza che lo vuole americano,
nessuno è esentato dalle responsabilità). Due
anni fa toccò alla "disinvolta" commercializzazione
delle armi negli U.S.A. e alla distorta percezione della violenza
che affligge la gioventù americana (il bel documentario
Bowling a Colombine, vincitore
del premio Oscar). Quest'anno il protagonista della tragedia
è stato il più famoso "W" del mondo;
lo scenario la desolazione del "Ground Zero"; il tema
l'oscura ombra della cupidigia umana, e gli orrori che spesso
porta con se'.
Ma non è facile descrivere l'orrore. E allora un'inevitabile
ellissi nero pece è l'unico incipit possibile, l'unica
figura retorica capace di rappresentare il grado zero della
civiltà umana, l'unica capace di descrivere l'indescrivibile,
mentre due deflagrazioni squassanti cercano perlomeno di darci
le coordinate di un evento che mille giorni non sono riusciti
a rendere più sopportabile, più comprensibile.
E mentre un'altra umanità (!) seppellisce tutto sotto
un po' di fondotinta, che non traspaia il lucido riflesso della
malafede; mentre ci sorride dalle sue protesi dentali e dal
suo ciuffo ben modellato, da uno sputo prodotto per l'occasione;
questa qui guarda attonita ciò che è persino inutile
mostrare, il fantasma di un Moloch che ormai è solo nelle
ultime evanescenti impressioni della nostra retina.
La tentazione è forte; ancora di più, è
umana: cancellare tutto, rimuovere, tornare alle partite di
calcio alla TV, alle gite in campagna, alla vita "normale".
E se a farlo è persino chi ci dovrebbe ricordare che
la campana suona sempre e comunque per noi; se questa persona
si mette a dirci che niente sarà più come prima
ma poi ci invita a fare shopping e ci mostra quanto sia corroborante
per lo spirito un bel drive alla buca 12… allora forse
il Bradbury evocato da Moore non aveva visto l'inferno. Aveva
semplicemente sbirciato un paio di generazioni avanti. Laddove
qualcuno si può permettere di cancellare la memoria,
di vedere nemici in un settantenne che "maledice le donne,
il tempo ed il governo", o in un gruppo di anacronistici
hippies. Salvo poi permettere la fuga in aereo di 24 (non uno!)
Bin Laden, in un'America paralizzata dal terrore e dalla CIA.
E anche Orwell, del resto, deve aver scrutato dallo stesso Aleph,
e visto nomi cambiare proprietario, nomi sparire, nomi di nemici
passare nell'elenco degli amici e viceversa, senz'altra motivazione
che il calcolo freddo del potere arroccato in difesa di se stesso.
Anche se da più parti si è sostenuto che sono
cose risapute, e che forse non c'è bisogno di mostrare
l'ovvio, credo non sia del tutto inutile la frequentazione di
Moore. Ho idea che non pochi si possano giovare di ciò
che si mostra e si espone in questo "documentario",
visti i risultati delle recenti elezioni presidenziali. Non
dimentichiamoci che è molto pericoloso cominciare a parlare
di "notizie già sentite", "predicozzi
ripetitivi"; per poi passare ad espressioni del tipo "informazioni
superflue", e ancora "verità poco costruttive",
per arrivare agli "inutili e dannosi disfattismi",
anticamera delle Verità di Stato, uniche e sole degne
di essere divulgate: o la Storia davvero non deve insegnarci
proprio nulla? E se anche fossero verità lapalissiane?
Non c'è bisogno di Neruda per sapere che esiste l'amore,
eppure lo leggiamo: non per informarci, ma per formarci (una
coscienza, una visione, una comunione con altre coscienze).
Viviamo spesso di parole e gesti superflui, ma a volte è
proprio del superfluo che non si può fare a meno, perché
a ben guardare è in molti casi necessario. "Tutta
l'arte è completamente inutile", scriveva Wilde,
con tutto l'amore che possiamo immaginare per quell'"inutile".
E così Moore non registra semplicemente fatti (noti o
meno). Li ordina, li associa, li vive, li monta secondo la logica
del cuore e del cervello. E se ci allontaniamo un attimo dal
mosaico, non vediamo più un documentario, ma un grido
di dolore (e, forse, un'opera d'arte).
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