anno 1
numero 1
maggio 2004

A scuola di regia con Giuseppe Bertolucci

[simone pacini]


Quello che segue è il resoconto di un laboratorio tenuto da Giuseppe Bertolucci con circa 20 studenti che frequentano il secondo anno del Corso di Laurea in ‘Progettazione e gestione degli eventi e delle imprese dell'arte e dello spettacolo’ della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Firenze. Il laboratorio si è svolto presso il Polo universitario di Prato, dal 9 al 24 Aprile 2003.

La formazione e l'apprendistato
La prima riflessione di Giuseppe Bertolucci ha riguardato il passaggio dalla forma scritta, che nasce da un problema di attenzione ed è intesa come una forma di riflessione, a quella orale. Il compito del poeta e del regista, ha affermato, è quello di "rovesciare il tavolo".
Il regista ha avuto negli anni due funzioni fondamentali, una è stata compiere una evoluzione del cinema trasformandolo da "fenomeno da baraccone" a processo di narrazione del racconto, l'altra ha riguardato una evoluzione dell'organizzazione e della divisione del lavoro. "I primi registi erano bricoleur" in quanto facevano quasi tutto da soli.
Nel periodo di formazione del Bertolucci regista è da sottolineare l'importanza della figura del padre Attilio, poeta di spessore; un intellettuale con intimi rapporti con personaggi illustri del tempo come Carlo Emilio Gadda e Pier Paolo Pasolini.
Il padre è stato una figura illuminante per Giuseppe, il suo primo narratore di fiabe. Giuseppe era il personaggio delle poesie di Attilio. Questo fu da subito una dimensione fondamentale per la ricerca di una propria espressione. Il padre, come "giudice estetico supremo", gli dette un'educazione all'espressione come valore assoluto, contro o al di là della comunicazione. L'espressione è diversa dalla comunicazione, questo credo è uno dei motivi della difficoltà del rapporto fra Giuseppe e il grande pubblico. ‘Credo che il dato che contraddistingue meglio la mia filmografia, dall'inizio della carriera ad oggi, sia una specie di vocazione costante che io definisco “marginalità consapevole”. È una delimitazione di territorio, l'accettazione di confini ben precisi dentro i quali esercitare la propria pratica creativa’ ha affermato in un' intervista.
Il regista parmense dichiara che l'espressione è frutto dell' "io", mentre la comunicazione comprende l' "io" (che si divide in "io conscio" e "io inconscio") e gli altri. Il processo creativo parte quindi dall' "io inconscio", passa per l' "io conscio", prosegue attraverso l'immaginario, quindi diventa un sistema di segni (diretti, simbolici, arbitrari, complessi) che porta al conscio dell'altro per arrivare, alla fine del percorso, all'inconscio dell'altro. A tutto questo si sommano le differenti culture, religioni e i valori morali ed estetici dell'individuo.
Bertolucci, introducendo il suo modo di vedere l'arte della regia, individua tre presenti per un film: il presente delle riprese, il presente del racconto e il presente della produzione.
Cinque sono invece le scritture di un film: la sceneggiatura, la preparazione - "il luogo che diventa luogo" -, il momento del "decoupage" (termine francese che significa dividere in piccoli pezzi attraverso il taglio e il ritaglio), il momento delle riprese ed il montaggio.
Tra il 1969 e il 1977 si colloca la fase di apprendistato, in questi anni Bertolucci fa l'aiuto-regista in due film di suo fratello Bernardo: La strategia del ragno (1970) e Novecento (1976).
Quello dell'aiuto-regista è un ruolo importante di sostegno alla regia, che ha il compito di fare lo spoglio del film, stabilendo i fabbisogni, il cast ed il controllo dei reparti, tramite indicazioni e un piano di lavorazione. Il piano di lavorazione prevede la verifica dei tempi (e la risoluzione di eventuali problemi), la funzione di fare da terminale, filtro psicologico per le tensioni e le incomprensioni (un lavoro di "coagulazione" della troupe), la direzione delle comparse e delle masse.
Tra gli altri ruoli che lavorano dietro un'opera cinematografica, fondamentale è la figura della segretaria di produzione, che ha il compito di stabilire il "timing", la "continuity" del film (l'attenzione per gli oggetti, gli arredamenti, i costumi), la sintassi dell'inquadratura, la divisione del film per inquadrature, e di redigere il diario di produzione (che è uno strumento importante a livello legale).
In Novecento Giuseppe lavora anche alla sceneggiatura insieme a suo fratello Bernardo e a Kim Arcalli. La sceneggiatura, prosegue il regista parmense, ha un uso conoscitivo, un mercato ("la praticabilità del prodotto"), un uso produttivo e uno creativo. Un'altra sua funzione è lo spoglio delle azioni che portano al piano di lavorazione. I momenti della sceneggiatura sono: l'idea, il soggetto (la struttura narrativa essenziale), il "treatment" (un film già delineato scena per scena ma senza dialoghi) e la sceneggiatura vera e propria (con i dialoghi e i modi di ripresa).
Il film non è la sua sceneggiatura, la quale ha come requisiti la struttura narrativa (senza contraddizioni), la precisazione dei personaggi e i dialoghi. È inoltre divisa in scene, specificando gli ambienti e le indicazioni temporali. I rischi della stesura di una sceneggiatura sono quello di "scrivere belle frasi ma intraducibili", quello di "fare una narrazione teatrale" (drammaturgicamente troppo forte) e quello di "fare una previsione totale". La sceneggiatura è però il "momento cruciale del metabolismo creativo".
Infine Bertolucci accenna alle tecniche di regia per girare di notte: la notte "a cavallo", che viene girata al crepuscolo, e la notte "americana", girata di giorno.

I "comici del disagio"
Il rapporto tra Giuseppe Bertolucci e Roberto Benigni nasce nel periodo del teatro d'immagine, a Roma nel 1975, grazie al monologo Cioni Mario di Gaspare fu Giulia. Questo spettacolo, che è un esperimento di "imbalsamazione totale dell'attore", vede Benigni-attore nel ruolo del paziente e Bertolucci-regista in quello del terapeuta. Bertolucci farà solo monologhi in teatro, indagandosi se questa forma sia la massima espansione teatrale o un "non-teatro".
Benigni metteva in scena racconti di vita quotidiana attraverso un personaggio "fool" del sottoproletariato pratese con l'idea del sogno consumistico e con una madre cattiva e punitiva.
Quello di Bertolucci e Benigni è un teatro di parola, comico, basato sull'attore, che si opponeva fortemente al teatro di avanguardia romano degli anni Settanta e che poneva l'attenzione sul dialetto toscano. Cioni Mario ebbe rapidamente un forte successo. In seguito la coppia fece, in Rai, l'esperienza di Televacca, un programma "contadino-surreale", per poi approdare a Vita da Cioni, una fiction mista tra pessimismo e umorismo con tre monologhi di Benigni.
Questa esperienza porterà i due al tono comico-tragico di Berlinguer ti voglio bene (1977) primo lungometraggio di Benigni attore e di Bertolucci regista. Le caratteristiche e i temi di questo film sono: la lingua toscana, l'ambientazione sottoproletaria e la disoccupazione, il suono in presa diretta (una novità per quegli anni), una cultura familiare arcaica e l'utopia comunista.
Berlinguer ti voglio bene vede il paesaggio protagonista, "tra idillio contadino e prime industrie", non è un film politico ma un film "a tesi". È importante il dato antropologico che si evince, che cerca la complicità del pubblico. "Un piede nel medioevo, uno nel consumismo e uno nel comunismo" afferma Bertolucci.
Riprendendo il tema del suono diretto, parla della legittimità del doppiaggio, una "simulazione" che però offre la possibilità al pubblico di ben comprendere. A tale proposito cita la corrente favorevole al sottotitolaggio, che genera un valore estetico, comprensiva di artisti e addetti ai lavori, e quella del doppiaggio, che genera un valore prettamente d'uso, comprendente i produttori. Con il sottotitolaggio lo spettatore ha un rapporto parziale con un soggetto integro, mentre col doppiaggio ne ha uno completo con un soggetto "manomesso". Il film doppiato "è un altro film" che quindi genera problemi con il diritto d'autore, problemi dello spettatore e problemi dell'opera.
Alla fine degli anni Settanta debutta una nuova generazione di comici (Benigni, Troisi, Verdone, Nichetti), una sorta di industria cinematografica che segna la fine dei comici della commedia all'italiana e coincide con la diffusione della televisione commerciale. Questi nuovi comici, infatti, provengono tutti da esperienze nel varietà e nel cabaret e sono "registi di sé stessi", in quanto la televisione rappresenta il "grado zero" della scrittura cinematografica.
Il percorso comico di Giuseppe Bertolucci si completa con I cammelli (1988) e Troppo sole (1994), nei quali lavora con la generazione successiva ai comici già nominati, che nasce in televisione e vede due esponenti di spicco in Paolo Rossi e Sabina Guzzanti, i "comici del disagio", interpreti dei due film citati e frutto di attente contaminazioni tra tragico e comico, tra alto (ideologia) e basso e quindi tra ideologia e comico.
La generazione di Bertolucci debutta nel periodo di crisi del sistema cinema/televisione (fine anni Settanta) che coincide con l'avvento della televisione privata. Il cinema "spazzatura" mette in difficoltà il cinema d'autore italiano che è quindi caratterizzato da una scarsa produzione.

La televisione
Il lavoro televisivo è stato fondamentale nella carriera di Giuseppe, con esperienze in tutti i generi, tra cui alcune fiction come Andare e venire (1971), Una vita in gioco (1992), Il mago, il re e la regina (1997) un documentario musicale girato nel backstage del Macbeth diretto da Riccardo Muti ed edizioni televisive di spettacoli teatrali.
Negli anni Sessanta la Rai attuava un servizio pubblico e un progetto pedagogico di valorizzazione della lingua e della cultura. Negli anni Settanta nacquero le televisioni commerciali locali e poi la Fininvest; la televisione diventò un contenitore di pubblicità, fu "spettacolarizzata" e fece nascere un certa "società dello spettacolo" che si fondava sulla legge della "televisione come legittimazione della realtà". Nacquero i primi problemi di audience.
Nello stesso periodo ci fu uno sconvolgimento del sistema cinematografico con la nascita di problemi di censura e di autocensura e la necessità di differenzazione dell'offerta.
La televisione si configurava più sul modello teatrale che su quello cinematografico, cioè sul modello di un monitoraggio senza regia, senza io narrante e di forte trasgressione rispetto alla grammatica cinematografica.
Da sottolineare, nella continua ricerca di affrontare tutti i generi, i documentari "antropologici" di Bertolucci che sono stati: Se non è ancora la felicità (1976), Panni sporchi (1980), Il perché e il percome (1987). Il fine di questi documentari è quello di testimoniare ed esplorare le persone (giovani comunisti, "drop out" alla stazione di Milano, tossicodipendenti) ed il loro senso comune, facendoli parlare da esseri pensanti. Il grande uso del piano sequenza in Panni sporchi introduce questo tema: esso è "molto teatrale" ed è diventata la bandiera del cinema di regia dal neorealismo in poi, ma rappresenta la "mortificazione del montaggio".
Le costanti di questi tre lavori sono state l'unicità di luogo e la struttura alfabetica, necessarie "per creare un partitura di un testo musicale". Il documentario per Bertolucci rappresenta la "drammaturgia della non finzione". Afferma infine che "il documentario d'autore non esiste più nella televisione attuale, esiste solo il documentario giornalistico".

Il digitale
Con L'amore probabilmente (2000) Bertolucci indaga per la prima volta l'universo del digitale, che fa capolino durante gli anni Ottanta, periodo nel quale il video analogico viene utilizzato per i sopralluoghi dei film e per il casting ed il controllo video modifica il modo di stare sul set degli attori.
Le riprese ed il montaggio de L'amore probabilmente vengono fatte in digitale, che Bertolucci definisce "un'alternativa possibile". Comporta la possibilità di abbattimento della messa in scena, di scrittura come "previsione per inquadrature di una sequenza", di ripresa diretta e suo successivo monitoraggio, di superamento del "decoupage".
Essenziale è il cambiamento dell'organizzazione del lavoro: più tempo per le riprese e meno per l'allestimento con conseguente riduzione della troupe. Il lavoro con gli attori presenta una nuova offerta: l'attore diventa il centro di gravità e si assiste al dilatamento dell'espressione. Lo spazio dell'espressione diventa un set a 360 gradi a disposizione dell'attore. C'è un maggior impegno e un cambiamento del rapporto tra attore e telecamera -"più intimità".
Il passaggio dalla moviola al computer non solo mette in crisi la meccanica, la manualità e il lavoro dei montatori, ma cambia anche il concetto stesso di regia. Il digitale rende il cinema immortale, non deperibile.